Rumori.
Ne sentivo in continuazione, dentro casa. Porte che cigolavano. Sussurri. Ante che sbattevano.
Li sentivo tutti i giorni e, a quanto pare, li notavo soltanto io. Ero solo una bambina.
Quella voce mi perseguitava, continuava a bisbigliare. Non capivo cosa dicesse, ero troppo spaventata, ero piccola. Per evitare di sentirla, passavo intere giornate chiusa in camera con lo stereo acceso a volume altissimo.
Ogni tanto mi capitava di vedere nello specchio, dietro di me, due occhi bianchi privi di pupille che mi fissavano.
Ho cominciato ad averne davvero paura quando, uscendo dalla doccia, la condensa dell'acqua calda aveva lasciato sullo specchio una scritta a chiare lettere: “ASCOLTAMI”.
Ero spaventata, davvero. Mi feci coraggio e andai a chiamare mia madre, perché vedesse, perché capisse che non mi ero inventata niente. Nel tragitto tra la cucina e il bagno le raccontai tutto. Quando arrivammo la condensa era ancora lì, la scritta lampante come fosse stata fatta appena un momento prima, ma mia madre non vide altro che uno specchio opaco. Dapprima lo interpretò come uno scherzo, ci rise su. Nel giro di qualche mese episodi come questo si ripresentarono, facendo preoccupare i miei genitori. Decisero alla fine di mandarmi in cura da uno psicologo, che mi diagnosticò un forte stress.
Stetti per anni in terapia da quel dottore, durante la quale passammo sedute intere a parlare di me e di quello che vedevo e sentivo, dei significati che potevano avere. Dato che non si presentavano più allucinazioni da molto tempo, lui considerò terminata la terapia. Mi “prescrisse” un diario personale sul quale riversare le mie emozioni e le mie sensazioni, per evitare che lo stress si accumulasse di nuovo.
Ovviamente, il fatto che non gli parlassi più di quelle voci non significava necessariamente che non le sentissi più.
Ora sono adulta e vivo da sola. Ho deciso finalmente di affrontare la mia paura e ascoltare quella voce, per capire per quale motivo mi assillasse. Non è stato difficile, mi aveva seguito ovunque mi ero trasferita.
Sono seduta sul divano, mentre scrivo, e sento chiaramente la sua presenza qui, dietro di me.
Mi decido. Chiamo a raccolta tutto il coraggio che ho. Pronuncio quelle due parole, pesanti quanto due macigni, con un filo di voce: “Ti ascolto”.
Sento subito un fischio assordante, acutissimo, sento quasi i timpani che si lacerano, e, prima che accada, la sua voce, chiara come non mai, mi risuona nella testa, come se i suoi pensieri fossero i miei.
“È troppo tardi. Ormai non puoi fare più nulla. Sciocca ragazzina, se solo mi avessi dato ascolto prima... Ora ne pagherai le conseguenze, È GIUNTA LA TUA ORA!”.
Sono passate alcune settimane. Non si è più fatto sentire, quindi mi convinco di aver avuto solo un'altra allucinazione. Difficile stabilire se fosse reale o no. Forse quello stupido psicologo non aveva sbagliato, forse sono davvero solo stressata.
Per alleviare la tensione e rilassarmi un po' prendo una coperta e decido di andare a fare 2 passi nel campo vicino a casa. Chiamo anche il cane, così potrà correre e sfogarsi anche lui. Passeggiamo per circa un' ora, io canticchiando, lui trotterellandomi accanto.
Arrivo in un punto in mezzo al campo, tra l'erba alta. Stendo la coperta, mi sdraio al sole e, finalmente, mi rilasso. Svuoto la mente e sciolgo tutte le tensioni che sentivo gravarmi addosso. Non mi sentivo così tranquilla da molto, moltissimo tempo.
Sento una sorta di ronzio in lontananza. Mi concilia il sonno. Chiudo gli occhi accompagnata dal tepore della giornata verso un sonno rilassato. Il ronzio che sentivo si fa via via più lontano ed ovattato ed arriva a creare nella mia mente addormentata l'immagine di un'ape, sulla quale mi soffermo ad immaginare il velocissimo battito delle sue piccole ali.
D'improvviso vengo svegliata da un dolore lancinante ai piedi. Il cane abbaia come un matto, chiaramente terrorizzato da quello che vede. Il ronzio sommesso di prima è diventato ora un boato assordante. Il dolore risale il mio corpo, ora mi sta divorando le gambe, e sento che continua a salire, raggiungendo l'inguine. Riesco, tra le urla, ad alzare la testa e a rivolgere lo sguardo verso quella cosa che mi sta smembrando. Mi accorgo solo a questo punto che una mietitrebbia mi sta dilaniando. È risalita lungo il mio corpo, raggiungendo lo stomaco. Chi conduce questa macchina è chiaramente ignaro di ciò che sta accadendo sotto le lame del suo mostro. Continuo a urlare, col poco fiato che mi è rimasto nei polmoni maciullati. Ma a che servirebbe, in effetti? Tanto è troppo tardi...