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Cosmonauti fantasma


Di cosmonauti sovietici deceduti durante la “corsa allo spazio” se ne è già parlato in passato (vedi l'articolo seguente).

Hacker antesignani e Cosmonauti morti

Mai sentito parlare degli "astronauti russi fantasma"? Vale a dire tutti coloro che morirono durante i lanci segreti fatti in Unione Sovietica, in piena corsa allo spazio. Tutti antecedenti la gloria raccolta poco dopo da Gagarin. E sapete chi furono tra i primi a scoprire questa piccola strage nascosta al mondo? Due fratelli italiani.

« Abbiamo attraversato la guerra fredda con l'incoscienza dell'età. Eravamo giovani, entusiasti. Oggi, probabilmente, ci fermerebbe la paura di quanto andavamo scoprendo e che il mondo non sempre ha saputo». Giovanni Battista Judica Cordiglia ha 68 anni, è perito al tribunale di Torino. Suo fratello Achille, classe 1933, è un cardiologo allievo del professor Dogliotti. Due professionisti la cui notorietà è velata dal tempo. Ma per vent’anni, dalla fine degli Anni 50, i giornali li citavano a ogni missione spaziale come testimoni della lotta che russi e americani avevano ingaggiato per impadronirsi del cosmo.

Dal loro punto di ascolto, prima nel centro di Torino, in via Accademia Albertina, poi in un bunker tedesco affittato per due lire in collina, infine nell'ala di una casa di cura del Canavese, acchiapparono i segreti, divulgarono i successi e le tragedie, registrarono i suoni e le voci di missioni in cui avevano messo il naso non perchè fossero spioni di mestiere ma perchè erano entrati in un gioco più grande di loro, e lo giocavano benissimo. Diventarono «i ragazzi di Torre Bert». Ancora oggi sembra impossibile che due radioamatori dilettanti abbiano potuto scoprire così tanto del più complesso conflitto tra le due superpotenze, e uscire indenni dalle trame di quegli anni.

IL BIP BIP

«Da bambini - raccontano i fratelli Judica - avevamo la passione per la radio, il più bel giocattolo del mondo, e la curiosità di andare sempre oltre nell'ascolto ci spinse ad allestire in casa una piccola stazione, fatta di materiale recuperato dai depositi di guerra e di antenne che progettavamo noi. La nostra Bibbia era una rivista che si chiamava “l'Arrangiatore”. Quello fu l'inizio del gioco. Poi nel '57 i russi mandarono in orbita il primo Sputnik e ne captammo il bip bip. Per noi cominciò la caccia ai segnali dallo spazio, una fantastica malattia». Oggi li chiameremmo hacker. Arrivarono con la fantasia e l'entusiasmo dove altri non potevano. O, se potevano, tacevano. Due rompiscatole cosmici. Guardati con incredulità dalla Nasa, dove andarono nel ‘64 dopo aver vinto alla Fiera dei Sogni, uno dei programmi-cult di Mike Bongiorno; controllati dai sovietici per i quali erano gangster dello spazio. «Nel settembre ‘63 abitavamo a Torino, avevamo le antenne sistemate sul terrazzo. Venne un certo Anatoli Krassikov, ufficialmente era il corrispondente della Tass da Roma, in realtà era un uomo del Kgb. Voleva vedere la stazione, ci propose di collaborare tecnicamente con Mosca. Dieci minuti dopo che se n’era andato arrivò il nostro controspionaggio. Da quel momento sapevamo di essere controllati». Paura? «Quando trasferimmo il centro di ascolto, che chiamammo Torre Bert, nel bunker isolato in collina, ci passavamo le notti: avrebbe potuto venire chiunque anche soltanto per rubarci l'attrezzatura. E quando lo lasciammo perchè trovammo le bandiere rosse sul tetto e capimmo che era un segnale pericoloso, scoprimmo che qualcuno aveva messo di nascosto le mani sulle bobine cosparse di grafite. Qualche spia, di sicuro. Però non ci pensavamo o forse erano altri tempi. Eravamo eccitati dalla gara spaziale: ci appagava la conferma di qualcosa che non avremmo dovuto sapere, anche se talvolta ciò che ci nascondevano era la tragedia, la morte di un uomo». O di una donna.

«LE VITTIME SONO 14»…

Il libro e il documentario riapriranno le polemiche sulle morti mai ammesse. Secondo i due fratelli in quel periodo almeno 14 cosmonauti sovietici si sono persi nello spazio per una manovra sbagliata, o sono morti al rientro nell'atmosfera. «Gli americani - spiegano - comunicavano tutto e si esponevano alle brutte figure, a Mosca invece mantenevano il silenzio sulle operazioni finchè non avevano avuto successo. Ma le nostre antenne ricostruivano quanto stava accadendo. Torino era un luogo privilegiato, il primo punto dove le astronavi sovietiche riprendevano contatto con le basi in Russia, dopo il black out imposto dal sorvolo degli Usa e dell'oceano. Così riversavano tutti i dati. Cogliemmo la voce di Gagarin e annunciammo la presenza del primo uomo nello spazio qualche minuto prima che lo ufficializzasse la Tass. Prima di lui, però, ci sono stati tentativi di cui non si è saputo niente. Nel novembre ‘60, sei mesi prima di Gagarin, sentimmo l'Sos nitido di un veicolo che si allontanava dalla Terra, senza possibilità di tornarci. Nel maggio ‘61 registrammo la morte in diretta di un equipaggio: due uomini e una donna». Il messaggio della donna è un pugno nello stomaco. I due colleghi probabilmente sono già morti, la cosmonauta cerca aiuto alla base: la manovra di rientro è fuori controllo. La voce ripete ossessivamente dei numeri e «ho caldo, ho caldo, ho caldo». «Questo il mondo non lo saprà», è la sua frase che dà il nome al libro.

NIENTE POLITICA…

«Un'altra volta - aggiungono i fratelli Judica - captammo il battito cardiaco e il respiro affannoso di un essere cui evidentemente mancava l'aria. Facemmo ascoltare il nastro al professor Dogliotti. Lo analizzò e non ebbe dubbi. I sovietici però non ammettevano le tragedie, ci accusavano di inventarci persino i nomi degli astronauti, dimenticando che li prendevamo dalle loro riviste e che con noi, all'ascolto, c'erano sempre giornalisti e tv di tutto il mondo. Emilio Fede, alla Rai, ci conosceva bene. Non ci spingeva l’ideologia, non eravamo anticomunisti, nè al soldo degli americani. Solo c’indispettiva che si negasse la realtà. E gli astronauti erano volontari consapevoli del rischio di morire». Nel villino a Ciriè i vecchi strumenti parlano di un'epoca lontana, centinaia di nastri conservano le voci e i ricordi. Oggi i fratelli hanno smesso di ascoltare il cielo. «La fine la decretammo nel ‘75 con la missione congiunta tra l'Apollo e la Soyuz, russi e americani che si danno la mano in orbita». Di Torre Bert resta l'antenna gigantesca, in giardino.


L'Unione Sovietica non ne ha mai riconosciuto l'esistenza (tranne per l'equipaggio del Sojuz 1 e del Sojuz 11), anche se alcuni casi sono stati ridiscussi nell'ultimo decennio, con tanto di prove inconfutabili. Davanti a tali casi ci sarebbe da riscrivere parte della storia scientifica del XX secolo. Non sarebbe stato infatti Yuri Gagarin il primo uomo ad andare nello spazio. Semmai si tratta del primo a essere tornato vivo. Anche dopo il successo di Gagarin sarebbero morti molti altri cosmonauti, tra cui addirittura una donna. Ovviamente erano i bei tempi della Guerra Fredda, perciò certe notizie filtravano col contagocce. La verità è saltata fuori dopo, tra intercettazioni di documenti, gole profonde e fonti varie dell'apparato burocratico.


La lista dei cosmonauti perduti è piuttosto lunga. Questi sono i casi più o meno acclarati:

* Aleksei Ledovsky (novembre 1957) * Serenti Shiborin (febbraio 1958) * Andrei Mitkov (gennaio 1959) * Gennadi Zavadovsky (maggio 1960) * Ivan Kachur (settembre 1960) * Piotr Dolgov (ottobre 1960) * Alexis Graciov (novembre 1960) * Gennadi Mikhailov (febbraio 1961) * Ludmilla Serakovna (maggio 1961) * Alexis Belokoniov (maggio 1962)

Ancora oggi le autorità russe smentiscono, glissano, fanno ammissioni assai parziali. Negli anni '90 rivelarono per esempio che alcune persone ebbero relazione con il programma spaziale e morirono in servizio, ma che non erano cosmonauti. In particolare esisteva un gruppo di piloti militari che effettuavano test per il programma spaziale senza essere cosmonauti; tra questi c'era anche Piotr Dolgov, ritenuto un cosmonauta perduto, che non morì nello spazio, ma in un lancio ad alta quota con il paracadute.


Leggende metropolitane


Esistono poi delle casistiche “weird”, vere e proprie leggende metropolitane che riguardano dei casi di cosmonauti fantasma di cui però non si hanno prove concrete. I cospirazionisti più folli dicono che si tratta di casi veri, ma che le autorità russe sono state brave a nascondere le prove o a trasformarle in burletta. I razionalisti sostengono invece che sono vere e proprie invenzioni, studiate negli anni '70 in ottica da propaganda per la Guerra Fredda. Ecco tre casi piuttosto noti.


Ivan Istochnikov


Secondo una leggenda metropolitana, questo cosmonauta fu lanciato nello spazio a bordo della Sojuz 2 che doveva agganciarsi alla Sojuz 3, ma scomparve il 26 ottobre 1968 e il suo casco fu trovato colpito da un micrometeorite. Le autorità sovietiche nascosero la sua morte e dichiararono che la capsula era priva di equipaggio. In realtà Ivan Istochnikov fu creato nel 1997 dal fotografo spagnolo Joan Fontcuberta con l'obiettivo di presentarlo ad un'esposizione al Museo Nazionale di Arte della Catalogna; il nome del cosmonauta è una traduzione in russo del nome del fotografo, che in italiano significa "Giovanni Fontecoperta". Questo è quindi un caso dichiaratamente falso.


Boris 504


Nel 1999 Dwayne Allen Day pubblicò un articolo satirico su uno scimpanzé, chiamato Boris 504, che sarebbe allunato con la sonda sovietica Luna 15 e sarebbe sopravvissuto per qualche tempo sulla Luna. L'articolo, che era una parodia della propaganda sovietica dell'epoca, fu ritenuto vero da alcuni mezzi di comunicazione.


Il nano del KGB


La sonda Luna 17 sbarcò sulla Luna un veicolo automatico semovente, il Lunokhod 1. Alcuni cittadini sovietici, che erano scettici sulla possibilità che un veicolo semovente potesse circolare sulla Luna, misero in giro la voce che esso fosse pilotato in realtà da un agente nano del KGB (il servizio segreto sovietico), imbarcatosi per una missione suicida. In realtà né sulla sonda né sul veicolo c'era posto per le provviste di aria, acqua e cibo che avrebbero dovuto tenere in vita un cosmonauta per alcuni mesi.

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