Creepypasta Italia Wiki
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La mia vita lavorativa è sempre stata uno strazio. Non sono mai riuscito a realizzarmi, nè a trovare una professione che mi appagasse, a livello economico, tale per cui potessi togliermi qualche sfizio. Quattro anni fa, ero di supporto alle donne delle pulizie in un poliambulatorio privato, non specificherò quale, ma diciamo solo che il paesotto di provincia nel quale era collocato divenne nello stesso tempo tristemente noto per i riti di presunte Messe nere che un gruppo di uomini svolse, con sacrifici e rituali mai del tutto spiegati. “Apò pàntos kakodaìmonos” era il nome che proferivano e col quale si identificavano, anche se più che un lessema sembrava una formula di qualche tipo. Ma torniamo a noi. Pensai in tutti i modi come arrotondare sfruttando le capacità del web: pubblicità su youtube, video divertenti, canzoni strumentali da discoteca create con un programma elementare, ma nulla.

Poi, scoprii che i siti a pagare di più, per ogni visualizzazione, erano quelli, per così dire, a luci rosse. Fu difficile trovare un genere da esplorare ed "inventare" nel marasma di quanto già esistente, finchè non prese moda una bizzarra categoria per la quale avevo, improvvisamente, tutti i mezzi per destreggiarmi: il clinical. Si tratta di video a contenuti erotici, che ritraggono scene di visite mediche, fornite da attori o registrate con voyeurismo. Era perfetto: avevo pieno accesso allo studio del ginecologo, e non mi fu per niente difficile mimetizzare due telecamerine nascoste, trovando con facilmente in rete quelle penne che le camuffano e riprendono dalla punta. Il piano era fatto, non mi rimaneva che aspettare. Ottenni i primi video correggendo di volta in volta gli errori, dall'inquadratura sgranata per colpa di come collocai l'oggetto posticcio per riprese, alle angolazioni. Finalmente, ottenni un buon risultato, e le sere, una volta ripuliti gli studi, trasferivo il materiale in usb per caricarlo sui siti scelti. Era un'attività del tutto illegale, è ovvio, e non ne andavo fiero, ma cominciava finalmente a rendere qualche centinaio di euro al mese, parificando e dunque raddoppiando quell'umile stipendio che prendevo. A volte, mi sentivo in colpa; altre, mi preoccupavo pensando alle conseguenze se fossi stato scoperto, ed altre volte, infine, ero disgustato dall'idea che un essere umano potesse eccitarsi nel vedere tali violazioni dell'intimità e della privacy umana.

Ma quanto avvenne qual giorno mi fece rabbrividire, e fu il momento nel quale decisi di abbandonare definitivamente tutto. Quanto sto per raccontare, è qualcosa che non ho il coraggio di consegnare a chi di dovere, ma che è giusto che sia narrato.

Erano le 10:10. La visita sarebbe dovuta essere già cominciata, se non addirittura finita. Virginia sedeva dentro allo studio nervosa, come prima di ricevere un compito in classe. Quella classe che non avrebbe più frequentato nonostante i suoi 17 anni, perché lei era uno spirito votato alla libertà, ed aveva deciso di mollare tutto. Virginia stava riorganizzando la propria vita, senza un diploma, con un lavoro da stagista ancora da cominciare.
Accanto, sull’altra sedia, sua madre stava composta, reggendo la borsa in pelle chiara, quasi stizzita. La ragazza leggeva sulla parete, appesa, la laurea del medico. “Anno MCMXCI, scuola di specialità in ginecologia”. Quando la porta alle sue spalle si chiuse, tuonò come un colpo di fucile, che fece lievemente sobbalzare madre e figlia dal loro attendere. Il dottore prese posto dietro la scrivania.
“Buongiorno!”, fece alle due.
“Buongiorno”, rispose fredda la signora.
Una stretta di mano veloce, seguita da un mescolamento di scartoffie.
“Finalmente ti incontro”, disse il medico a Virginia, senza cenno di sorriso.
“Dunque, perché vi siete rivolte a me?”.
“Pensiamo sia arrivato il momento di un check-up a mia figlia”.
“È un bene, 17 anni è già quasi tardi. Cominciamo con qualche domanda, cara”. Ciò detto, prese un fascicolo con su scritto “Anamnesi”, e schioccò la penna stilografica nera.
“Hai mai avvertito problemi di qualche tipo?”
Silenzio.
La madre strattonò delicatamente il braccio di Virginia: “Hey, sta parlando con te!”.
“Problemi?... No, non ne ho ricordi”.
“Gravidanze sospette, farmaci ansiolitici?”
“Se assumo… No, nessuno di questi”
“Molto bene, hai avuto interventi chirurgici in passato?”
“No. Non mi ricordo. No, no di certo, sono sicura”.
“Dal menarca il ciclo è sempre stato regolare?”
Virginia avvertì il senso d’imbarazzo e di tensione salire dentro sé.
“No, nossignore. Cioè, volevo dire… Sì, è sempre stato tutto molto regolare”.
“Ok, un’ultima domanda: hai già avuto un rapporto sessuale completo?”
L’angoscia salì. Perché diamine avrebbe dovuto dirlo? Come argomento è sempre stato un tabù.
Almeno, davanti ai suoi.
“S…sì” fece con un filo di voce. Sua madre si girò di scatto, fissandola con occhi arrabbiati ed offesi che lei non aveva coraggio ad incrociare.
“Va bene – il ginecologo chiuse il fascicolo – ora vediamo se mi dici la verità. Signora, può accomodarsi fuori se sua figlia non la vuole strettamente qui”.
“Mi sa che mi accomodo a casa. Oggi torni a piedi, se ne hai il coraggio!”.
E così dicendo, uscì dallo studio con passo pesante, scandito dai tacchi.
Virginia rimase seduta con lo sguardo basso. Quel momento prima o poi sarebbe dovuto arrivare, e le sarebbe costato caro. Il dottore la svegliò dal trans della tensione porgendole due cuffiette simili a quelle che si indossano sulle scarpe, quando si va in piscina.
“Questi mettili sopra i calzini, per questioni igieniche. Svestiti dietro il paravento e prendi posto sul lettino”.
Il medico sparì dietro ad una tendina, dove probabilmente l’avrebbe visitata. La ragazza si alzò dalla sedia in direzione del paravento, e si tolse jeans e scarpe, eseguendo l’ordine. Lì scoprì la porzione di stanza dov’era il letto, e non fu rincuorata dalla visione che aveva davanti, tra strumenti metallici ed un largo rotolo di scottex a coprire il suo posto.
“Sei pronta?” fece l’uomo venendole incontro, mentre si infilava due guanti in lattice azzurro, uno per mano.
“Cosa fai con le mutande su? Toglile, devo visitarti.”
Virginia impallidì. Se c’era una cosa che da sempre la metteva in imbarazzo era fare le visite. Spogliarsi. Ricordava quando in prima liceo dovette mettersi a seno nudo per l’elettrocardiogramma, e quando una reazione allergica pochi mesi prima le costò qualcosa di simile. Ma questo era un terrore, un incubo che sospettava e che inevitabilmente si stava realizzando. Sfilò ad occhi chiusi gli slip, e si distese sul lettino, tirando la maglietta fino a metà coscia.
“Metti i piedi sui poggioli per favore – fece il ginecologo – bene, così. Tiriamo su la maglia però, non ti mangio mica!”.
Virginia sentì quelle mani sconosciute scoprirle il ventre fin sopra l’ombelico, e si rassegnò a quella posizione disagevole, con le gambe semidivaricate. Osservava il signore di spalle trafficare su un tavolo coperto da un telo bianco, mentre estraeva qualcosa da buste sterili. Lei si voltò, cercando di ignorare il rumore fastidioso della plastica, così simile a quello che sentiva dal dentista.
“Cerca di scivolare un po’ avanti. Così, scivola scivola scivola…”.
A tratti, la ragazza spostò il bacino quasi a bordo del lettino, fino a sentirsi totalmente indifesa di fronte all’esame.
“Allarga un pochino” fece il ginecologo allontanandole le ginocchia tra loro con le dita indici.
Spostò alla cieca uno sgabello di fronte alla paziente, e cominciò a visitarla. Virginia fissava la finestra dietro la testa del dottore, cercando di non far caso al tatto ed il contatto integerrimo.
Osservava portando un braccio dietro la nuca le fronde degli alberi schiarire il riflesso del sole sul vetro opaco.
D’un tratto, scorse una sagoma troppo famigliare. Il perimetro assomigliava ad una testa coperta da capelli scuri a coprirne il volto. Non riusciva a distinguere se si trattasse davvero di una figura umana, o se fosse solo un’immobile impressione. Rabbrividì. Rabbrividì quando una mano
lentamente salì, a sfiorare la superficie della finestra.
Quando fece per sollevare il capo, un fascio di luce la accecò. Era una lampada clinica che il medico aveva acceso, riprendendo posto sul tavolo degli strumenti.
“Dottore, c’è qualcosa…”
“Certo, è solo uno speculum – disse mostrandole un beccuccio di metallo che fungeva da divaricatore – ora è sufficiente che lo lubrifichi un po’, non sentirai nulla.”.
“No, c’è qualcosa di strano fuori. Non l’avevo mai visto e…”
“Non è nulla di strano invece. È un controllo di routine, non ti farà male, al massimo solo un po’ di fastidio”.
“Lei non capisce, c’è….” tentò di spiegare la ragazza mentre il dottore tornava a sedersi, interrompendola bruscamente con un nuovo tocco della mano sinistra ed un “Potrebbe essere un po’ freddo”.
Riguardò la finestra, non più coperta dall’uomo, e distinse chiaramente gli occhi glaciali e spalancati di una ragazzina sorridente, divertita forse dal suo salutarla e spiarla in modo infantile.
Virginia si irrigidì, per lo spavento ma anche per la sensazione di penetrazione dell’acciaio.
Digrignò i denti.
“Stai ferma e cerca di rilassarti, facciamo solo un piccolo tampone.”.
Provò a pronunciare qualche parola, ma la sensazione non le permetteva di emettere nulla se non un suono acuto e quasi impercettibile. Chiuse con energia gli occhi, sperando che tutto sparisse. Il dolore che non sapeva neppure se dolore fosse, ed il rinnovato terrore di quella presenza.
“Abbiamo finito. Non è durato molto, non credi?”. Così dicendo, sfilò lo speculum e tornò a posarlo in una bacinella d’acqua, prendendo al suo posto un tubetto di gel. Virginia fece scivolare il gomito scompostamente sullo sguardo, e tutto sembrava davvero svanito. Il silenzio era tornato a regnare, disturbato solo dal rumore di qualcosa simile agli spruzzi di un contenitore ormai vuoto. Vide il ginecologo fermarsi in piedi davanti a lei, e dietro, un riquadro vuoto, sterile di allucinazioni. Lui abbassò il guanto bagnato o forse impiastricciato di ungente tra le sue gambe, rassicurandola che sarebbe stato l’ultimo esame. Si fecero un cenno di sorriso, e sopra il ventre della ragazza si posò la mano destra a spingere lievemente. Anche quel tempo fu grottesco, strano, inusuale. Ma non importava: ormai tutto stava finendo. Virginia sentiva le due dita muoversi dentro se, come serpi nell’utero; finchè una non sfilò, per ricomparire stranamente più in basso. Ci fu uno sguardo titubante sul suo volto, ma non lo sollevò. Sperava di non capire, di essere confusa, di non sentire bene. Ma qualcosa di viscido stava entrando. Non era la vagina.

“Dottore, cosa…?”
Entrava e si muoveva. Si sollevò facendo leva sugli avambracci, e vide la testa china sulla zona pubica.
“Dottore”
Non rispondeva. I capelli sembravano assai meno grigi, confusi nel monte di Venere. La cosa scivolò fuori, e mostrandosi alla ragazza, la fece sussultare. Era la ragazzina della finestra. Erano i suoi occhi di ghiaccio, era il ghigno malvagio, era il cranio vagamente deforme che la assaliva sul lettino.
“Quel buco stanotte verrà benedetto dal mio Dio!”
Le afferrò i fianchi, spogliandola della maglia e graffiandole la schiena. Urlò ma non riuscì a divincolarsi, terrorizzata dal demone femmineo a schiacciarle lo sterno, e baciandola in bocca.

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“Come sta il seno? Ti senti noduli? Hai dolori? – strillava parlandole sulle labbra – devi essere in forze per accogliere mio figlio, puttana!”.
Strizzò i seni con tutta la forza cui disponeva, mentre la ragazza spalancava i denti senza riuscire ad emettere suono.
“Ssssssh…” le fece, lasciando la presa e portando il medio sul naso. Fece segno di due, toccandosi gli occhi con quelle sue unghie spezzate e sporche, per poi riportarle sull’ano. Fece pressione. Una quiete sospesa, un reciproco contatto sbarrato e terrorizzato. Le leccò le labbra, e poi:
“Apò pàntos kakodaìmonos!”
Allontanò di scatto la mano dal pube, e ne uscì vorticosamente una sostanza macabra, simile ad un liquido di letame. Risate isteriche si fecero spazio dalla voce della creatura, mentre si allontanava beffandola.
“No!”
Il letame non accennava a fermarsi, invadendo la carta del lettino ed il pavimento dello studio. Virginia piangeva, disperata, coprendosi le nudità con le braccia.
“Ragazza!”
Il ginecologo si ritrasse dal suo petto.
“Ti ho provocato un dolore durante la palpazione?”
“Ma cosa… Cosa mi sta facendo?”
“L’esame del seno, te l’ho detto.”
Virginia guardò tremante le piastrelle del suolo. Tutto era pulito, intatto. Aveva addosso i jeans, senza un pallido ricordo di essersi rivestita. Si abbassò la maglietta, abbracciandosi in un dondolio autoconsolatorio.
“Virginia cosa ti succede? È tutto a posto, la visita è finita. Sei sana come un pesce e pronta ad avere tutti i bambini che vuoi”.
“No!” urlò voltandosi sul lettino.
“Non vuoi avere figli? Scelta tua. Non c’è nulla di male”.
“No! No… Lei non capisce…”.
Si alzò e si ricompose velocemente, afferrando di corsa la giacca a vento sulla sedia dove stava venti minuti prima, e scappò dall’ambulatorio.
Il ginecologo rimase impassibile di fronte alla scena. Ripose alcuni aggeggi, cambiò la carta sul lettino, e fece accomodar'e la paziente successiva.
“Non prendere paura, cara – fece alla ragazza appena entrata – non so da cosa dipendesse la reazione che hai visto dalla sala d’attesa, ma posso garantirti che è del tutto avulsa dalla mia visita”.
Mentre lei, spogliatasi, prendeva posto sul lettino, il medico tornava a mischiare carte. Prese un vecchio libro ingiallito, dalla copertina in pelle a chiazze pelosa, e appuntò qualcosa sulla prima pagina.
“Apò pàntos kakodaìmonos…” sussurrò mentre scriveva.
“Cosa?” fece la ragazza attendendo di essere visitata.
“Niente, cara – rispose il dottore infilandosi i guanti ed un nuovo speculum gelido tra le cosce della sua paziente, che sussultò in una smorfia aggrappando le mani al lenzuolo di carta – diciamo solo che sono soddisfatto del mio lavoro. Di fare la mia parte nell’interesse di voi donne che siete culla della vita”.

Spensi immediatamente il file e decisi di cancellare qualsiasi traccia di quanto avessi fatto, sia dai siti che dal mio pc, sia le iscrizioni che le email stesse ad esse collegate. Solo questo video è ciò che conservo, in una Usb ben nascosta al mondo, in un luogo sicuro. Perchè non l'avevo gettata? Per convincere me stesso che quanto avessi visto, non fosse frutto della mia immaginazione.

Passarono nove mesi, cambiai lavoro, e mi ritrovai netturbino. Era onesto, all'aria aperta, e per nulla degradante. Solo una volta toprnai in un ambiente medico, per rimuovere rifiuti organici dall'ospedale di quel paese di provincia. Nel reparto di maternità, potei distinguere bene la fisionomia di quella ragazza, confermato dal nome sulla stanza, "Virginia".

Il suo bambino non era con lei, ma fu altrettanto facile riconoscerlo da dietro la parete di vetro dell'atrio adiacente: bastava seguire gli sguardi di un pugno di persone, che mormoravano a bassa voce: “Apò pàntos kakodaìmonos…”.

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