
“Grishko non parla. Ma ascolta.”
Prologo – Le Terre del Morozhnaya
Tra le montagne più antiche e crudeli dell’Est, dove l’inverno è eterno e le foreste non lasciano uscire chi vi entra, esistevano un tempo quattro villaggi dimenticati da Dio e dagli uomini. Li chiamavano Nursk, Myr, Vekra e Selyakh. Separati da neve, leggende e silenzi, vivevano senza contatti, uniti solo da un fiume gelido che attraversava quel mondo come una ferita: il Morozhnaya.
Questo fiume, che brillava di bianco perfino di notte, era così freddo da congelare perfino le voci. Si diceva che chi vi si specchiava troppo a lungo potesse dimenticare il proprio nome. Un solo ponte lo attraversava, antico e scricchiolante, con corde marce e assi annerite. Collegava Myr, sulla riva meridionale, agli altri villaggi. Ma nessuno lo attraversava volentieri.
Era un’epoca lontana, tra il 1803 e il 1869, negli anni silenziosi del primo Impero zarista. La neve cadeva senza fretta, le mappe dell’Est erano incomplete, e nessuno avrebbe saputo indicare quei villaggi su un documento ufficiale. Vivevano ai margini del mondo conosciuto, ignorati perfino dagli esattori e dai soldati, come se la Russia stessa li avesse dimenticati.
Ogni villaggio era una macchia di fumo e legno nel bianco eterno. Case basse, costruite con tronchi e pietre, con lanterne appese alle pareti e tetti che gemevano sotto il peso della neve. Si viveva con il minimo, parlando sottovoce, respirando lentamente per non spezzare il silenzio che pareva vivo.
Ogni sera, al calare del sole, la vita si trasformava in rituale. Si legava una fascia rossa alla maniglia della porta. Si accendeva una candela di cera chiara e la si lasciava ardere alla finestra. Si posava un pezzo di pane raffermo sul davanzale. Nessuno diceva il motivo. Nessuno chiedeva. Chi dimenticava… smetteva di esistere.
Le storie raccontavano che, molto tempo prima, qualcosa si era aggirato tra le case. Qualcosa che non parlava. Non urlava. Ma prendeva. Di notte. Senza suono. Senza lasciare nulla se non un silenzio più pesante. Da allora, le regole non furono mai rotte.
Fu così per decenni. Le sparizioni cessarono. Le famiglie vissero in un equilibrio gelido ma stabile. Le leggende si fecero sussurri. I sussurri divennero silenzi.
Finché, in un inverno senza nome, tutto cominciò a cambiare di nuovo.
Non fu la Baba a portare il cambiamento. Fu l’inverno stesso.
Un vento diverso, che non veniva da Nord né da Est. Un gelo che sembrava salire dal terreno. Candele che si spegnevano prima dell’alba. Pane che restava intatto, anche per giorni. Uccelli che smettevano di posarsi. Cani che non osavano più abbaiare.
I più anziani cominciarono a ricordare. A dire, con voce tremante, che il tempo della Creatura poteva tornare. Che i villaggi avevano dimenticato troppo. E che la Protezione delle Candele aveva una durata. Come ogni cosa viva.
E così, quando il primo sparì, nessuno urlò. Non si trattava di paura. Si trattava di riconoscere un ciclo.
La neve aveva iniziato a muoversi di nuovo. E nel cuore di tutti… sapevano che stava tornando.
Capitolo 1 – La Protezione delle Candele
Inverno del 1870.
Accadde senza preavviso, come il primo scricchiolio nel ghiaccio spesso.
Una figura, coperta di veli grigi e pesanti come nebbia vecchia, apparve al limite del villaggio di Myr.
Camminava a passi lenti, scalza nella neve, come se il gelo la ignorasse.
Non parlava. Non cercava sguardi.
Stringeva un bastone sottile tra dita lunghe e pallide, mentre trascinava dietro di sé un fagotto vuoto, bagnato e silenzioso.
La gente si radunò davanti al pozzo centrale, muti come statue.
Nessuno aveva mai visto un’estranea. Nessuno la riconosceva.
Eppure… nessuno la cacciò.
Nessuno osò interrogarla.
Fu chiamata Baba.
Non per età, né per pietà.
Quel nome, bisbigliato come un errore, apparteneva a tempi sepolti.
Alcune credenze dimenticate, custodite solo nei sussurri dei più vecchi, parlavano di un ritorno.
Dicevano che quando i villaggi avessero dimenticato la vera paura, sarebbe arrivata una donna senza voce, vestita di gelo e tramonto.
E con lei, qualcosa che dormiva sotto il confine tra foresta e anima.
Le fu offerta una capanna disabitata, al margine di Myr, dove la neve si accumulava più in fretta.
Lei annuì. Senza dire una parola.
E lì rimase.
Ogni sera, la Baba accendeva una candela alla finestra.
Ogni mattina, la cera era sciolta solo a metà.
Legava una fascia rossa al suo bastone.
Camminava tra le case con una lanterna accesa… anche di giorno.
I bambini smettevano di piangere quando la vedevano.
Gli anziani abbassavano lo sguardo.
Persino il vento sembrava allontanarsi quando lei passava.
Per settimane, la sua presenza sembrò un respiro nel gelo.
Nessuno sparì.
Le notti parvero meno dense.
Qualcuno osò pensare che fosse una guardiana, mandata da qualcosa di antico, forse più vecchio dello stesso Morozhnaya, il fiume che separava i villaggi come una cicatrice.
Ma nessuno sapeva da dove fosse venuta.
Nessuno ricordava il momento esatto in cui era apparsa.
Nessuno voleva sapere.
E poi… cominciò.
Le candele cominciarono a spegnersi prima del tempo.
Il pane rimaneva sul davanzale, intatto.
Gli uccelli sparivano.
Il silenzio si fece teso, come se ascoltasse.
Il primo a sparire fu un mugnaio.
Poi una ragazza.
Poi un’intera famiglia.
Nessun urlo.
Nessuna traccia.
Solo porte aperte.
Letti ancora caldi.
E una scia d’umidità arancione, tremolante, tra le assi del pavimento.
Le voci tornarono.
Ma basse, incrinate.
“Le regole non bastano più…”
“La Baba ha portato qualcosa con sé…”

“Forse… non è sola.”
Una mattina, dietro la chiesa, comparve una scritta incisa nel ghiaccio.
Netta. Profonda. Perfetta.
ГРИШКО
Grishko.
Chi la lesse… tremò.
Chi toccò la lastra… perse la voce.
E quella notte, la campana del villaggio — ferma da decenni — suonò da sola.
Tre rintocchi.
Secchi.
Nel cuore del silenzio.
Capitolo 2 – Non erano spariti
La lastra di ghiaccio rimase lì, dietro la chiesa, per tre giorni. Nessuno la toccò più. Nessuno osò neppure sfiorare l’aria intorno. Il nome inciso – ГРИШКО – sembrava crescere ogni notte, come se scavasse nel ghiaccio dall’interno. Come se volesse uscire.
Era passato solo un mese da quando la Baba era apparsa. Un mese lungo come un anno. L’inverno del 1870 sembrava non voler finire, e sui quattro villaggi calava ogni giorno un silenzio più pesante. Nessuno pronunciava la parola "paura", ma tutti la portavano dentro come una fessura ghiacciata nello sterno.
Poi accadde qualcosa.
Quando il nome cominciò a pulsare nella mente degli anziani e a farsi eco nei sogni dei bambini, tutto iniziò a disfarsi.
Fu allora che cominciarono i segni. Ogni notte, prima che una casa venisse colpita, accadeva sempre la stessa cosa: – Una candela nera veniva trovata accesa alla finestra.
– La porta era segnata con una croce di cera fusa.
– E i nastri rossi, legati lì da settimane, volavano via con uno scatto, come strappati da un vento invisibile.
La gente pensava fosse un rituale per proteggere, o forse un avvertimento della Baba, che nessuno vedeva mai durante la notte. Lei non parlava, non spiegava. Ma ogni volta che una casa veniva colpita, era stata segnata quella stessa notte.
E secondo alcuni, durante quei minuti in cui il segno compariva e la candela si accendeva da sola, si udiva — solo per un istante — la voce della Baba sussurrare tra le ombre una frase che sembrava una filastrocca, o una maledizione:

Гришко, Гришко, я зову тебя.
В окно несу свечу — горит она.
Где я свечу, там сон и страх.
Приди, возьми. Здесь твой путь и мрак.
(Grishko, Grishko, io ti chiamo —
porto la candela alla finestra – brucia.
Dove la metto, c’è sonno e paura.
Vieni, prendi. Qui c’è il tuo sentiero e l’oscurità.)
E non era mai lo stesso villaggio. In qualche modo, la Baba si spostava tra Myr, Vekra, Selyakh e Nursk senza che nessuno la vedesse partire né arrivare. Al mattino, le candele erano già lì.
Le sparizioni cominciarono come crepe nel muro. Invisibili, all’inizio. Un bambino che non risponde alla chiamata. Un anziano che non finisce la frase. Tre donne sparite tra due respiri. Un’intera famiglia inghiottita tra il crepitio del fuoco e il fischio del vento.
Le case venivano trovate ancora calde, come se qualcosa avesse solo sfiorato il tempo: – letti disfatti con il cuscino ancora affondato,
– zuppa che sobbolliva senza che nessuno la toccasse,
– porte aperte come bocche che avevano detto troppo.
E ovunque, una scia. Non sangue. Non terra. Ma una colata arancione, densa, viva, che tremolava come una lingua stanca. Serpeggiava tra le assi del pavimento, scompariva sotto le travi. Odorava di ferita matura.
Poi toccò agli animali. I polli cominciarono a moltiplicarsi. Ogni giorno ce n’era uno in più. Poi due. Poi cinque. Le settimane passavano e il numero aumentava, inspiegabilmente.
Nessuno osava ucciderli. Nessuno li aveva visti nascere. Ma erano lì, tra le case e i cortili, a fissare immobili le finestre.
Finché qualcuno iniziò a sospettare. Che fossero gli stessi abitanti scomparsi. Tornati in forma diversa. Che quei polli non fossero animali. Ma corpi mutati.

Poi cominciarono a morire. Uno dopo l’altro, cadevano a terra contorcendosi, col collo che si piegava all’indietro, beccando il vuoto come in un sogno rotto. Morivano dopo ore di spasmi, sempre dopo aver covato un’arancia marcia. E ogni volta che un pollo moriva, il suo corpo svaniva come dissolto nel nulla, lasciando al suo posto una singola arancia, molle e pulsante.
Nessuno capiva come accadesse. Nessuno osava toccarle. Col passare dei giorni, le arance iniziarono ad accumularsi. Ovunque. Nei vicoli. Sotto le finestre. Sulle soglie delle case ormai vuote. Non c’erano più corpi da seppellire. Solo arance, al posto loro.
Nei giorni precedenti alla morte, si comportavano in modo strano: Giravano in cerchio. Si accovacciavano ovunque. Alcuni si mettevano a puntare arance. Le lasciavano in strada, nei cortili, perfino nei letti vuoti delle case abbandonate. Come se sapessero dove erano sparite le persone.
Finché, un giorno, poco prima del tramonto, un ragazzo vide tutto. Un pollo si era fermato a covare un’arancia marcia. Ma quella non era un’arancia qualsiasi. Sotto la scorza spaccata, nella polpa molle e scura, spuntava una zampa. Una zampa di pollo, sporca di linfa e avvolta da filamenti arancioni, come se l’arancia la stesse generando, o divorando.
Il ragazzo fuggì. Non raccontò nulla. Ma il giorno dopo impazzì. Rideva, mordeva gli oggetti, parlava in lingue che nessuno riconosceva. Morì dopo una settimana, con un’espressione serena e gli occhi sbarrati.
Nel frattempo, si sparse la voce. Di un altro ragazzo. Uno di Nursk. Si diceva che avesse visto lui. Non i polli. Non le arance. Ma la Creatura.
Secondo il racconto – sussurrato di notte tra i cacciatori – era alto quanto un adulto. Il suo corpo era scarno, coperto appena da una pelle grigiastra e umida. Non aveva spine, né piume vere, ma la pelle sembrava screpolata come guscio d’uovo bruciato.
Il volto era di un bambino, con occhi troppo grandi per il cranio, lucidi e immobili, come se non battessero mai le palpebre. Occhi che sembravano specchi liquidi, capaci di riflettere paure che non erano state ancora pensate. E una bocca larga, incurvata all’insù, come se ridesse sempre, ma senza gioia, che si apriva e si chiudeva senza suono. Zampe sottili da uccello, mani da uomo.
Il ragazzo non parlò per giorni. Rimase chiuso in casa, con lo sguardo fisso nel vuoto e le mani che tremavano anche da ferme. Poi, una notte, parlò. Raccontò ciò che aveva visto: una figura che si aggirava tra le capanne, lenta e sicura, che sfiorava le finestre e accarezzava le porte.
Ma non era lui ad aver scoperto la Creatura. Era la Creatura ad averlo visto. Si era fermata. Si era voltata. E lo aveva guardato dritto negli occhi.
Quella stessa notte, il ragazzo morì. Il suo corpo rigido, ma con il petto ancora caldo. Come se qualcosa vi dormisse dentro.
Alcuni saggi del villaggio dissero che era stato punito. Non per aver visto. Ma per aver detto.
E così, nel silenzio sempre più teso dei villaggi, si cominciò a dire: “Chi parla… chi descrive… chi dà forma… consegna la propria voce alla Creatura.”
E nessuno, da quel giorno, osò più raccontare cosa avesse visto davvero.
Capitolo 3 – I Dodici Prescelti
Anno 1872.
La notte prima della ventisettesima sparizione, un uomo morente chiese di vedere sua moglie. Era uno dei più anziani del villaggio di Vekra, sopravvissuto a guerre, inverni e carestie. Ma non a ciò che stava tornando.
La donna entrò nella stanza e trovò il marito col volto scavato dalla febbre, ma lucido come non lo era da giorni. Le prese la mano e sussurrò: “È arrivato il tempo, come nella profezia. Dovrai raccontarla. Non per salvarci, ma perché sappiano cosa li sta cercando.”

Poi le fece cenno verso un sacchetto sotto il letto. Dentro, una pergamena avvolta da corda rossa, consumata e macchiata. Ma prima che la donna potesse aprirla, l'uomo, con voce roca ma decisa, iniziò a recitare:
“Quando ventisette nomi saranno scritti sulla pietra,
una creatura d’antico silenzio si muoverà sotto la terra.
Dodici saranno scelti non per volontà, ma per visione.
Solo chi dimentica sé stesso potrà restare intero.
Ma la tana attende…
E chi entra non torna come prima.”
Solo allora la donna aprì la pergamena, e vi trovò le stesse parole. Segno che non stava delirando. Che la profezia era reale.
Con un ultimo respiro, l’uomo aggiunse: "Solo allora... solo dopo il ventisettesimo nome... i quattro villaggi si riuniranno. Dopo decenni di silenzio, dopo anni di paura. Saranno costretti a guardarsi negli occhi. A ricordare che ciò che sta arrivando non conosce confini. E allora… sceglieranno. O meglio… verranno scelti."
“Quando ventisette nomi saranno scritti sulla pietra,
una creatura d’antico silenzio si muoverà sotto la terra.
Dodici saranno scelti non per volontà, ma per visione.
Solo chi dimentica sé stesso potrà restare intero.
Ma la tana attende…
E chi entra non torna come prima.”
L’uomo spirò quella notte. Il giorno dopo, il ventisettesimo nome fu inciso non sulla pietra del villaggio, ma su una lastra custodita nella casa del capo villaggio di Vekra — un uomo saggio e riservato, che da anni teneva memoria dei nomi incisi.
La donna, come promesso al marito, si recò da lui all’alba. Lo trovò seduto accanto al camino spento, avvolto in una coperta ruvida. Gli raccontò tutto, parola per parola, mentre la luce pallida filtrava attraverso le assi della finestra.
L’uomo ascoltò in silenzio. Poi si alzò, aprì un baule sotto il pavimento e ne estrasse la lastra: fredda, ruvida, già segnata da ventisei incisioni.
Quando la donna finì il racconto, lui prese scalpello e martello, e cominciò a incidere il ventisettesimo nome.
La sua mano tremava. Ma non per la vecchiaia. Perché sapeva: da quel momento in poi, nulla sarebbe stato più uguale.
La notizia corse tra le quattro comunità: Vekra, Nursk, Myr e Selyakh. E quella sera, i capi villaggio si riunirono per la prima volta dopo decenni, ospitati in una casa di legno nei pressi del fiume. Sedettero attorno a un tavolo, mangiando zuppa calda e pane raffermo, mentre fuori la neve si scioglieva lentamente sotto il peso della decisione.
Il giorno dopo, al tramonto, tutti gli abitanti si radunarono nella piazza di Myr. Lì, davanti alla vecchia torre del grano, si tenne un’assemblea. Le voci si fecero sempre più basse, finché il silenzio fu totale.
Dodici furono scelti.
Erano uomini e donne che avevano perso figli, fratelli, compagni. Alcuni avevano vissuto da soli per anni, in capanne isolate, parlando solo con gli occhi, sopravvissuti grazie al silenzio. Altri avevano smesso di sognare, o forse avevano imparato a non raccontare più.
Non erano eroi. Non erano cacciatori. Ma erano stati toccati.
Si credeva che, uniti, potessero dare la caccia alla Creatura.
A Grishko.
Ma nessuno sapeva davvero cosa li aspettava.
Nessuno.
Solo la tana li stava ascoltando.
Prima della partenza, i Dodici si riunirono in disparte, ai margini della folla. Nessuno parlava, ma tutti guardavano la stessa figura: la Baba.
Lei era lì, immobile, con la lanterna spenta tra le mani. I Dodici la fissarono con occhi duri, sospettosi. Come se sapessero che lei conoscesse la verità. Come se, in fondo, fosse sempre stata parte di quel disegno oscuro.
Ma nessuno disse nulla. Nemmeno lei.
Capitolo 4 – La Tana che non Finisce
Per quattro giorni e quattro notti, i Dodici camminarono nel cuore della foresta. Non seguivano sentieri. Non c’erano canti di uccelli. Nessun fruscio tra i rami. Solo silenzio. Un silenzio così innaturale da sembrare vivo.
Camminavano come dentro un sogno, o forse un ricordo che non apparteneva a loro. I tronchi degli alberi erano troppo dritti. Il muschio troppo nero. Il vento… non esisteva.

Al quinto giorno, raggiunsero un luogo che nessuna mappa portava.
Un avvallamento tra gli alberi, scavato nella terra e circondato da radici giganti che si torcevano verso il cielo come dita spezzate. Al centro, una voragine. Non era solo una cavità: la terra attorno pulsava. Respirava.
La tana.
Lì non esisteva più il sole. Né il giorno, né la notte. Solo un’oscurità lattiginosa e opaca. L’aria era ferma, ma pesante. Ogni suono moriva sul bordo della gola.
Si guardarono. Poi uno alla volta, entrarono.
Dentro, la tana non aveva pareti, ma pareva fatta di carne e radici. Le superfici pulsavano al passaggio dei loro passi. Un odore umido di terra, sangue e ruggine riempiva ogni respiro.
Quattro tunnel si aprivano davanti a loro, e senza parlare, si divisero in gruppi da tre. Iniziarono la caccia. Ma nessuno sapeva cosa cercare. Nessuno sapeva che lì dentro, solo Grishko conosceva l’uscita.
All’inizio, solo silenzi. Poi rumori lontani. Passi. Grattare di unghie su superfici molli. Urla trattenute da troppo tempo.
Quando provarono a riposare, una notte — o forse era giorno — uno di loro sparì. Non ci fu grido. Solo un segno sul terreno: come uno sbrego, o un’apertura fresca.

Poi apparve una creatura. Sembrava un cervo. Ma aveva il corpo piegato e le zampe di gallina. Le corna erano radici contorte. Gli occhi… erano umani.
Non lo attaccarono. Ma capirono.
Era uno dei loro.
Così iniziò la discesa.
Uno a uno sparivano. Non sempre con urla. A volte bastava un’ombra, un sussurro, un nome pronunciato in sogno.
Ne restarono in cinque.
Tre morirono di fame e sete, in cunicoli senza uscita, la pelle incollata al terreno vivente.
Gli ultimi due persero la mente. Si aggiravano ciechi nel buio, mormorando frasi senza senso. Alla fine, li trovarono riversi accanto a pareti pulsanti, gli occhi spalancati nel terrore, fissi su qualcosa che non si vedeva. Morirono così, con il respiro spezzato e il volto pietrificato dalla paura.
Il villaggio li attese. Giorni. Settimane. Speranze sempre più flebili. Poi iniziarono a sparire anche loro.
Uno alla volta. Silenziosamente.
Case vuote. Culle fredde. Cibo intatto.
I villaggi divennero deserti.
Negli anni seguenti, i nomi vennero dimenticati. Le mappe non segnavano più quei luoghi. La neve coprì tutto, ma la foresta ricordava.
Anno 1876.

Solo un anziano, che si era nascosto per tutto il tempo nella botola sotto la stalla, sopravvisse. Quando uscì, la neve era caduta a coprire ogni traccia. Ma qualcosa si muoveva ancora.
Vide la Baba. Lei era lì, immobile come il primo giorno. Accanto a lei… Grishko.
L’anziano non urlò. Fece un solo passo. Era l’unico a conoscere la verità sulla Baba. L’aveva osservata in silenzio, compreso più di quanto avrebbe dovuto. Ma ora, stanco, solo, e consapevole che nulla poteva essere salvato, si arrese. Non per paura. Ma per restare con lei.
E davanti a lei, Grishko lo trasformò in un pollo. Un piumaggio lento e contorto lo avvolse, becco e zampe presero forma. Lei lo raccolse tra le braccia come fosse un neonato, con una dolcezza antica.
E insieme, scomparvero tra i boschi.
Epilogo – Le Strade Silenziose

La leggenda dice che non si sentì mai più alcun suono nei villaggi del fiume.
Solo vento. E odore d’arancia marcia.
Ma in alcune notti d’inverno, quando la neve cade troppo lentamente e le lanterne tremano senza motivo, qualcuno dice di vedere una figura solitaria attraversare i sentieri abbandonati.
Indossa veli grigi, cammina scalza, e tiene tra le braccia qualcosa che si muove piano. Qualcosa che respira.
Dietro di lei, una seconda ombra si muove strisciando.
Non è un sogno. Non è memoria.
È il viaggio che non finisce. È Grishko che cerca un nuovo nome. È la Baba che indica la porta.
E se mentre dormi senti un fruscio tra le travi, o un battito lieve dietro la porta chiusa, non accendere la luce. Non parlare. Non respirare troppo forte.
Perché potresti accorgerti… che una piccola arancia marcia è già accanto al tuo letto.
E allora è troppo tardi. Grishko ti ha trovato.
Racconto di Mishka21Lzz