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Ormai stava per tramontare, ma noi eravamo ancora in macchina in cerca della strada. Dove dovevamo andare? Ormai non ricordo più neanche quello… ho dimenticato molte cose dopo quella notte. Rivedo le loro facce, gli occhi pieni di terrore, i loro ultimi attimi di vita. Non sono solo morti, peggio, sono morti a causa mia. Perché se non avessi visto quelle luci, se non le avessi indicate sperando di trovare qualcuno che ci avrebbe aiutati, forse si sarebbero salvati...

Eravamo persi. Gli alberi si susseguivano su di noi, su entrambi i lati, e sembravano un paio di artigli che volevano avidamente stringerci. E forse era proprio così, forse non era un caso che, da quando avevamo imboccato quel sentiero, non si sentiva più alcun suono se non le ruote che grattavano la polvere. Gli uccelli erano spariti, così come ogni altro suono che non fosse il frusciare costante del vento. E stava facendo buio.

“Te l’ho detto, ci siamo persi, dobbiamo tornare indietro!”

“Scusa come faccio a fare inversione, la strada è stretta, non possiamo che andare avanti. E poi ti dico che era la svolta giusta!”

“Non è possibile! Qui non c’è anima viva, non si vedono più luci.”

“Mamma ho paura, torniamo indietro.”

“Non preoccuparti, ora mamma convince papà a girare la macchina…”

“Siamo quasi arrivati credetemi…”

“Ci siamo persi!”

Fu a quel punto che mio fratello piccolo scoppiò in lacrime, e i miei ripresero a discutere. Ora il sole era totalmente tramontato.

“Guardate, ci sono delle luci lì!”, mi sporsi con tutto il braccio fuori dal finestrino, indicando delle luci in lontananza.

Così continuammo ad avanzare.

“Ferma l’auto!”

“L’hai colpito?”

“…Scendo a vedere.”

Una figura era apparsa dagli alberi correndo e, per il buio, mio padre non era riuscito a fermare la macchina in tempo. Era una donna distesa nella polvere, vicino alla macchina. Era incinta.

“O Dio, chiama un’ambulanza!”

“Non arriverebbero in tempo, siamo in mezzo al nulla!”

“Avevo detto che dovevamo tornare indietro!” mia madre si strinse le mani sul viso. Mio fratello ora stava zitto e osservava quella scena, quasi incantato.

“Aiutami a sollevarla, la portiamo con noi.”

“È pericoloso spostare un ferito…”

“Che dovremmo fare, lasciarla qui a morire?” Mio padre ormai stava urlando. Quella sua espressione, illuminata solo dai fari dell’auto gli dava un’aria grottesca, non lo riconoscevo.

“Forza, aiutami a metterla in auto.”

Riprendemmo il viaggio.

La donna era accasciata sul posto vicino a me. Per fortuna non perdeva sangue, ma probabilmente aveva sbattuto forte la testa. Respirava piano. Aveva un vestito lungo, bianco, e dei segni disegnati sul viso e sulle mani… nei capelli aveva delle erbe intrecciate.

“Tranquilla tesoro, vedrai che andrà tutto bene… scusa per prima.” Mia madre piangeva ancora per lo spavento. A un certo punto nessuno parlò più e ricominciai a sentire quello strano silenzio venire dai boschi. Ululava il vento. Riapparvero le luci. Si avvicinavano.

“Papà le luci sono più vicine, ci siamo quasi vero?”

“Sì, manca poco.” Era teso, non sapeva davvero dove fossimo o dove stessimo andando. Ormai ci guidava solo quella strada sterrata.

“Cos’è quel rumore?”. C’era davvero, ancora lontano e fievole ma c’era. Era un sottofondo di voci, schiamazzi, risate, urla… tamburi che battevano.

“Che sia qualche festa di un paese?” mia madre parve riprendersi.

“Probabile…”

“Fa un po’ paura.” Dissi io. Era vero, non avevo mai sentito una festa del genere.

“Si staranno divertendo un po’ troppo si vede.” Ridacchiò mio padre, cercando di scacciare quella verità che avevo ingenuamente annunciato. Poi, finalmente, arrivammo.

Era vuoto. Tutto il rumore, la frenesia di prima non aveva lasciato traccia. L’unico testimone di quello che avevamo sentito erano degli striscioni colorati abbandonati a terra, dei coriandoli, un fuoco acceso. Una cosa che avrebbe dovuto colpirci era che non c’erano luci elettriche, ma allora non ce ne accorgemmo nemmeno. Eravamo troppo presi dall’assurdità, da quanto quella situazione, quel mondo in cui eravamo precipitati fosse surreale. Perché sembrava proprio che, in quel lungo viaggio, fossimo passati da una vita a un’altra. Persino l’aria che si respirava ci diceva questo. Le case erano buie e abbandonate. La donna, che fino ad allora era rimasta incosciente, d’un tratto spalancò gli occhi, in puro terrore.

“No… no… NO! Perché qui, perché qui!”

Non ho mai più sentito urla simili… si contorceva nell’auto, i suoi occhi giravano in ogni direzione, sembrava una bestia messa all’angolo che doveva essere uccisa. Scavalcò il sedile e si avventò contro mio padre. Voleva raggiugere ad ogni costo il volante. Mia madre urlava, così mio fratello. Mio padre tentava di scacciarla mentre lei continuava a urlare ormai versi senza senso e lo aggrediva. Dal panico, mio padre premette per sbaglio l’acceleratore e l’auto ebbe un brutto sbalzo.

“State tutti bene?” era mio padre. Perdeva sangue dalla testa. La botta che avevo preso io era stata attenuata dalla cintura, la donna, invece, si contorceva tra il freno a mano e i posti a sedere.

“Mamma! Mamma!” urlavo io. Mia madre non rispondeva.

Io e mio padre uscimmo dall’auto. Piangevo anche io, ero solo un ragazzino. Mia madre era afflosciata sul sedile, la testa le pendeva… e non rispondeva. A quella vista, mio padre era già perduto. La chiamava, ripeteva il suo nome. Le accarezzava le guance. Le alzò la testa. La chiamava sempre più forte. La provò a scuotere, con una voce rotta dal pianto.

Niente.

Mio fratello minore era in silenzio, come non fosse successo nulla; secondo me la sua mente se n’era già andata insieme a quella di papà: me lo dicevano i suoi occhi. Credo fu allora che io capii che ero solo, capii che mia madre era o morta o in fin di vita, capii che mio padre ormai non sapeva più tenersi insieme, capii che mio fratello era così piccolo e indifeso che preferiva non capire cosa fosse successo, preferiva non piangere, non strillare, ma rimanere in silenzio e fare il bravo… forse così tutto sarebbe tornato come prima. Poi c’era quella donna… quella donna incinta, accasciata tra il freno a mano e i sedili che non la smetteva di urlare. Quanto avrei voluto che fosse stata mia madre a urlare in quel modo e lei a tacere…

Fu allora che le rividi, dal bosco… delle luci, lampeggianti, sparse tra gli alberi… non erano fuoco, né lampadine, né nient’altro che potessi spiegarmi. La donna smise di lamentarsi, ipnotizzata da quella apparizione. Sussurrò qualcosa, come sollevata dal proprio dolore. Anche mio padre ora dava le spalle al corpo ancora seduto di mia madre e fissava stupefatto quelle luci. La bocca era aperta e gli occhi vuoti. Sembrava avesse dimenticato tutto quello che era successo. Se caddi anch’io in quella ipnosi non riesco a ricordarlo… è probabile perché altrimenti loro sarebbero dovuti apparire dal nulla.

Quando li vidi le luci erano di nuovo scomparse, facendoci ripiombare nell’oscurità, rotta solo dai fanali e dai fuochi ancora accesi. Erano tanti, non so quanti, ma ci circondavano tutti, in cerchio, intorno all’auto. Ci fissavano. A un occhio distratto sarebbero parse persone normali, ma bastava guardarli in faccia per capire che ormai erano più simili a bestie che a uomini. Molti erano macchiati di sangue. Ora la donna stava tremando, trattenendo i lamenti.

Uno di loro parlò: “Fratelli, figli della Luce, in questa notte di festa nostro Signore, Iddio onnipotente ci ha portato questi doni, perché noi possiamo dimostrargli quanto degni siamo della Sua grazia e del Suo amore. O fratelli, prescelti dalla Luce, veri profeti dell’unico vero Dio, voi che sapete i segreti della vita e della morte, che conoscete il Suo reale viso, accogliete dunque questi doni, possiamo noi gioire e celebrare con la nostra gioia la gloria del Signore. Prendeteli e portateli da me e al Tempio. Perché serviamo il vero Dio, di cui unica vera emanazione è la Luce. In nomine Lux!”

“In nomine Lux!”, ripeterono tutti, e si avventarono su di noi.

Vidi tante mani prendere papà e trascinarlo via. Lui, occhi ancora vuoti, non opponeva resistenza, né tentò di proteggermi, né si girò un’ultima volta a dirmi addio. Ora il mio fratellino strillava come non mai, ma nulla potei fare contro tutte quelle bestie che ruppero i vetri dell’auto, aprirono le porte e trascinarono fuori mio fratello, strattonandolo con violenza, graffiandolo, quasi fosse un giocattolo. Non potrà mai dimenticare il suo sguardo e i suoi lamenti.

E poi fu il turno della donna. Lei resistette più di mio padre, anche più di me. Forse perché sapeva già quale sarebbe stata la sua sorte. Un uomo apparve tra la folla, le prese i lunghi capelli e tirandola da quelli la fece strisciare fuori dall’auto, in ginocchio. A quella vista, molti esultavano e ridevano.

Poi ci fui io. Una donna mi si parò davanti e mi strinse le guance con la mano: “Questo me lo prendo io!” strillò agli altri, come fossi una preda appena conquistata. Mi trascinò via, tenendomi per la bocca, con le unghie.

Nemmeno io tentavo di liberarmi. Avevo paura, paura di cosa ci avrebbero fatto, di quello che sarebbe successo alla mia famiglia… non sapevo cosa fare, se sarei riuscito a salvarmi, se quell’incubo sarebbe mai finito. Perché ci stavano facendo questo? Perché mio padre e mio fratello erano stati portati via da me? Perché c’eravamo persi? Perché avevo visto quelle luci? Perché mia madre era morta?

Piangevo, che altro potevo fare? E le lacrime mi finivano sui tagli che quella donna mi aveva fatto con le unghie, ancora mi stringeva. Ormai non sapevo più se fosse tutto vero o se mi sarei svegliato… le mille facce che mi vedevano e ridevano intorno a me si amalgamavano in un unico grugno sorridente, poco illuminato dalla luce gialla e opprimente di quei fuochi. E venivo trascinato come un animale, schernito, umiliato, tenuto per il muso da questa donna che non avevo nemmeno visto in faccia. Sentivo dolore. Non erano solo i tagli, non erano solo le lacrime salate e calde che mi finivano sui graffi. Non era la gola chiusa, la bocca secca, lo sguardo appannato. La mia anima era in pezzi, e sentivo quei pezzi graffiarmi dentro, strisciare taglienti nelle viscere.

Se il Diavolo esiste, l’ho visto quella notte.

La donna che mi trascinava presto entrò in una casa. Dentro aprì una porta e mi spinse nella stanza.

“Non provarci neanche a fuggire, orfano. Da qui te ne andrai solo morto”. Chiuse la porta a chiave.

Ero solo. Mi rannicchiai su me stesso, in un angolo. Avevo freddo. Mi strinsi le gambe e continuai a piangere.

Dopo un po’ tornò il silenzio. Non sapevo cosa fosse successo a mio padre o a mio fratello e una parte di me non voleva saperlo. Avrebbe fatto meno male far finta che la loro morte fosse stata indolore e naturale… immaginavo ma non volevo sapere. Era troppo.

I tamburi ripresero a suonare.

Qualcuno aprì la porta di quella stanza e mi ordinò di uscire. Era la donna di prima, stavolta aveva con se una corda. Mi fece girare e me la strinse intorno alle mani, al petto e al collo. Mi mise anche un bavaglio intorno alla bocca. Bruciava sui graffi. Io non dicevo nulla, non facevo nulla. Non potevo cambiare ciò che stava succedendo. Quando decise che ero pronto, iniziò a camminare tenendo la corda come un guinzaglio. Io la seguivo.

I rumori si facevano sempre più assordanti. Erano le urla stridule di almeno un centinaio di persone: urla di dolore, di piacere, di divertimento, di follia. Erano i suoni di un’orda infernale venuta sulla terra, erano i rumori dei diavoli in festa, danzanti sul corpo morto di Cristo. Alcune cose che vidi quella notte non posso nemmeno scriverle su questo foglio, sarebbero un insulto alla stessa essenza dell’uomo. Abominevole è l’una parola che si avvicina lontanamente a ciò che fecero e che ci fecero. Non erano nemmeno più umani.

Al mio passaggio alcuni si giravano e ridevano, altri mi indicavano, altri ancora mi toccavano, mi spingevano, mi colpivano. Volevano ferirmi con tutto ciò che fosse a loro disposizione. Anche mesi dopo la mia fuga, le orribili cicatrici che mi inflissero ancora non si erano rimarginate… ma, dopo tutto, la carne può rigenerarsi, quello che mi hanno per sempre tolto è lo spirito, la pace, i sogni, la speranza. Nessuno potrà mai ridarmi quello: preferirei ancora essere grondante di sangue ma riavere intatta la mia mente che il contrario. La carne guarisce…

E per loro ero solo carne, non una persona, non un essere senziente, capace di provare emozioni, di avere ricordi, ero solo un giocattolo con cui intrattenersi, un pupazzo da fare in pezzi solo per il gusto di farlo, un essere che andava rotto, calpestato e dimenticato.

Lentamente, la mia schiavista mi stava portando verso il centro di quel girone infernale. La musica dei tamburi si faceva sempre più prepotente, sovrastando pian piano le generali urla animalesche. Stavamo per raggiungere quello che avrei sentito chiamare il Tempio, o l’Altare della Luce, il luogo dove il nostro fato si sarebbe compiuto, dove quel loro dio assetato di sangue avrebbe bevuto e si sarebbe saziato. Stavo per ascoltare le parole del Padre, l’uomo che aveva parlato al nostro arrivo, ormai qualche ora prima.

Un largo palco rotondo, circondato da tre grandi bracieri infuocati. Questo era il luogo del Rito. Tutti si erano riuniti in cerchio intorno a questo luogo. Al centro la donna incinta e il Padre:

“Fratelli, figli della Luce, tanto abbiamo atteso questo momento, predetto e tramandato a noi dagli antichi profeti del Dio, nostro Signore e Creatore. Davanti a noi finalmente la Puttana di Babilonia, feconda del Figlio della Luce, scappata a questo destino, poi ritrovata dai tre doni divini: i tre discepoli, padre e figli!”

A queste parole, il silenzio piombato quando i tamburi si erano fermati si ruppe e grida e urla aumentarono di intensità, fino a diventare un unico boato. Il Padre alzava le braccia fiero davanti ai suoi figli. Era il loro Imperatore.

“Tra poco dimostreremo finalmente vera gratitudine al nostro Signore, Iddio onnipotente, Luce del Cosmo. Tra poco il nostro umile compito sarà finalmente compiuto e con esso fatta sarà la Sua santa e immensa volontà! Nessuno può fermare la mano del Signore, nessuno può fermare il percorso da lui prestabilito, nessuno, uomo o falso profeta, può opporsi alla vera ed unica fonte di salvezza, cui unica incarnazione tra gli uomini è la Luce. Nessuno vi dico! Dimostrazione è il tentativo di fuga della Grande Babilonia… il Signore è grande, e il Suo volere sempre trova la via!”

A queste parole, il Padre tirò fuori un pugnale affilato. La folla era inferocita. La donna incinta si dimenava con tutta sé stessa, ma non riusciva nulla contro le corde che la stringevano a terra. La mia schiavista mi tirò a lei, mi prese la testa e mi sussurrò all’orecchio: “Guarda il Suo volere compiersi!”

“Per la Luce, con la Luce, nel nome della Luce. Perché io sono il Tuo unico e vero profeta, perché il sangue ha purificato le mie carni e il fuoco le ha temprate. Perché io per primo ho visto il tuo spaventoso volto, perché ho osservato l’abisso accecante dei tuoi occhi e mi ci sono buttato dentro amandoti come Tu solo meriti. Mi inchino a te, Dio, Luce, ci inchiniamo a te e siamo qui per servirti.

IN NOMINE LUX!”

A queste ultime parole, il coltello penetrò le carni della pancia della donna che, in un attimo di silenzio, emise un profondo, dirompente, agghiacciante urlo. Il Padre continuò il taglio in verticale ed estrasse la lama grondante sangue.

“IN NOMINE LUX!” urlarono tutti.

Il Padre estrasse il feto sanguinante dalla pancia e lo sollevò verso il cielo, bevendo il sangue che ne cadeva.

Vomitai. Mi girava la testa, ormai non potevo più credere che tutto questo fosse vero. Mi accasciai a terra solo per sentire le strette corde che mi erano state imposte lacerarmi ancora di più la pelle. “Non può essere vero, non può essere vero, svegliati! Svegliati!” me lo ripetevo, aggrappandomi con tutto me stesso a quelle parole come un naufrago a un ancora. Non ce la potevo più fare. Ormai il sapore delle lacrime e quello del vomito erano la stessa cosa. Adesso, su tutto il resto del rumore, quello che sentivo di più era la risata della donna che mi aveva imprigionato. La risata rotta, fredda, monotona di quella donna. Non era possibile.

“Guarda mostro!” mi urlò nell’orecchio, riprendendomi per i capelli e obbligandomi a fissare quell’ennesimo orrore: era il Padre che gettava nel primo braciere il neonato.

“Portate Isacco!” urlò il Padre.

Degli uomini portarono mio fratello sull’Altare.

“Dio ecco, come tu mi hai ordinato, uno dei tuoi figli, uno dei tuoi tre doni! Come tu mi ordini eccoti di nuovo un sacrificio! O, Dio onnipotente, mio e nostro Signore, o Luce, manda ora un tuo angelo, come facesti per Abramo, se desideri che questo tuo figlio venga risparmiato, altrimenti anch’egli sarà ucciso, e gettato nel Tuo santo fuoco!” tutti lo seguivano nel suo malato gioco.

Tutti urlavano e ridevano e battevano le mani. Tutti acclamavano il loro profeta. Anche la donna che mi aveva legato strillava a squarciagola, alzando il braccio libero in segno di approvazione. Fu allora che mi diede un calcio, facendomi mettere sulle mia ginocchia e tirò la corda per alzare la mia testa… a me ormai non importava nulla, non mi importava se mi avrebbe ucciso, se mi avrebbe torturato per il resto della mia vita, se mi avrebbe piantato un chiodo nel petto. Non mi importava cosa mi avrebbe fatto, non avrei visto l’assassinio di mio fratello. Non avevo la forza di farlo, nessuno l’avrebbe avuta. Chiusi gli occhi.

Sentii prima molte urla, poi un colpo. Silenzio. La folla che acclamava. Il rumore del corpo gettato nel secondo braciere.

“Ed ora, Dio che sei qui con me, Figli della Luce suoi discepoli, ascoltatori del vero profeta, condanniamo al sacro supplizio il padre di tutte le malvagità, l’uomo o mostro mandatoci qui dal nostro Signore, perché persino la più schifosa delle creature deve adempiere al Suo volere. Persino l’uomo servitore di Satana non può sottrarsi ai compiti da Te assegnati. Perché i patti di Lucifero non valgono nulla in confronto al Tuo potere o, Dio onnipotente, mio e nostro Signore. Portino quindi Gesta, che paghi per la sua irriconoscenza il supplizio della croce assieme al corpo offeso di Babilonia!”

Il cadavere della donna, ancora legato a terra, fu sciolto e messo da parte. Al suo posto fu stesa a terra una grande croce di legno. Due uomini presero quindi il corpo della donna e lo adagiarono sulla croce. Entrambi avevano chiodi e martello.

“IN NOMINE LUX!” urlò il Padre, con le braccia aperte e lo sguardo rivolto al cielo. A lui tutti risposero in coro e, in quello stesso attimo, calarono il martello nel legno e i chiodi nella carne. Dopo le braccia fu il turno dei piedi, poi, rividi per l’ultima volta mio padre.

Era a quattro zampe, nudo, con una corda che gli stringeva il collo. Una figura incappucciata lo trascinava e lo faceva gattonare. Arrivato sull’altare sciolsero la corda e lo bloccarono a terra. Mio padre in quel momento parve smuoversi dall’apatia in cui era caduto, urlava e si dimenava come posseduto. Ma nulla bastò, era in trappola. L’avevano trasformato in una delle stesse belve che loro stessi erano diventati. Non era forse questo un destino peggiore della morte? Nemmeno mio padre era più un uomo, come ora non lo sono più io.

Non ebbero nemmeno la pietà di ucciderlo prima.

I chiodi gli calarono nei polsi con due lunghi schizzi di sangue e il rumore statico della carne e del legno che si rompevano sotto i colpi dei martelli. L’avevano inchiodato girato, in modo che la sua faccia fosse rivolta verso quella morta della donna sotto di lui. Tutto ciò è innominabile.

Dopo che ebbero fissato anche i piedi, portarono un quarto, lungo chiodo.

“Figli della Luce” i suoi occhi erano ormai due biglie infuocate “voi che seguite il vero profeta, che avete visto il vero spaventoso volto del nostro Signore, che riuscite a percepire quanto il mondo e la vita siano basati sul Suo crudele, spietato amore, che riuscite ad assaporare il Suo malato, amaro sangue. O Dio onnipotente, o Signore, o Luce, che sei vera essenza di Colui che è senza nome, abbassa il tuo sguardo sui Tuoi servitori: noi, unici a portare a compimento la Tua vera parola, il Tuo santo ordine. Guardaci, guardaci o Dio, mentre terminiamo questo atto per Te! IN NOMINE LUX!”

“IN NOMINE LUX!”

E così l’ultimo chiodo fu fissato sulla nuca di mio padre e con un unico, fatale colpo, trafisse il suo cranio e quello della donna passando per le loro bocche, unendo i due in un macabro, violento, crudo bacio. Fu eretta la croce.

Un boato dalle profondità del mondo si alzò in quel momento, un ruggito, un tuono ancestrale e maledetto, il suono che ogni uomo deve pregare giorno e notte di non sentire mai. La voce dalle viscere del buio, l’orrore del vuoto alla fine di tutto, il ruggito portatore di follia del Drago dell’Apocalisse, la Bestia con dieci corna e sette teste.

In quell’attimo il bosco, tutto, s’illumino della luce dell’Inferno e la croce prese a sollevarsi nell’aria, così come ogni partecipe a quel rito innominabile.

E il sangue e le stelle divennero una cosa sola, perché la Luce dagli Inferi amalgamava tutto in una danza di morte e putrefazione. E quel luogo abbandonato da tutti fu abitato da centinaia di anime sollevate da terra, occhi bianchi, braccia tese a contemplare l’Orrore che avevano ingenuamente portato su di loro. E in quell’attimo da tutti loro caddero lacrime perché avevano visto dentro di loro e avevano sentito anche gli occhi di qualcun altro. Tutti piangevano e quella croce orripilante si sollevava più in alto di ogni altro, in una grottesca piramide di morte.

Ero ancora legato, ma le gambe erano libere. Corsi via, il più in fretta possibile, e la mia pelle si accapponava al suono perpetuo di quella Cosa venuta fuori dal bosco, alla vista di quelle che erano state persone e di quella spettrale luce venuta fuori da un altro mondo. Corsi, corsi come non ho mai fatto in vita mia. Corsi e piansi, e lasciai che le lacrime si perdessero nel vento, lo stesso che avevo sentito ululare unico e solo in quella foresta maledetta.

Venni ritrovato, la mattina dopo, da un gruppo di ragazzi che stava viaggiando in auto. Se non fosse stato per loro sarei morto su quel pezzo d’asfalto. Per anni non ho parlato. Non ho mangiato. Non ho dormito. La mia vita è finita prima di quella notte, da allora sono morto e continuo a essere un morto anche ora che scrivo su questo foglio. È la prima e ultima volta che ho confessato cos’è successo quella fatidica notte, non mi importa chi leggerà, se mi crederà pazzo o meno, se penserà che mi sono inventato tutto. Io mi sono liberato da questo immenso peso e poi… qualcosa effettivamente trovarono, sperso in quelle stradine di montagna: la nostra auto, ancora lì abbandonata, con il cadavere putrefatto di mia madre al suo interno. Non trovarono nient’altro e io non voglio sapere se quelle luci si sono mai più viste, di notte, in quei dintorni. Non voglio perché desidero solo la pace.

Ho pensato molte volte al terzo braciere, a come fosse destinato a me, a come, forse, sarebbe stato meglio se fossi morto anche io quella notte, dato che non ho mai più ripreso a vivere… Tra poco ritroverò il resto della mia famiglia, smetterò di essere un orfano perseguitato dagli incubi. Sono stufo di tutto questo. In questa vita ho sofferto troppo. Quando avrò sigillato questo manoscritto, penso che uscirò dall’ospedale, una notte. Prenderò un’auto qualunque e guiderò fino al lago. Scenderò dall’auto, ricordandomi di lasciarla aperta con le chiavi sul sedile e mi godrò un po’ la natura. Poi, quando sarà il momento, mi riempirò le tasche di pietre e entrerò in acqua, fino a dove non si tocca. Lì, finalmente, troverò l’oblio che desidero da ormai troppi, troppi anni.

Apocalypse

Scritta da NotteNera


Narrazioni[]

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Narrazione di La Voce Dell'Alchimista

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