Un amico mi ha di recente avvertito di un terribile incidente avvenuto nella zona urbana di Boston. Essendo un autista del bus, sentiva molte delle solite storielle che giravano al suo deposito – rapine, finestrini rotti, l’occasionale coppia che cercava di fare sesso sbronzo; ma alcuni autisti ebbero racconti molto più sinistri ed enigmatici da raccontare. Alcuni parlarono di passeggeri fantasma che pagavano il proprio biglietto, prendevano posto al piano superiore e poi svanivano senza lasciare tracce.
Queste ultime storie erano il genere di racconti che il mio amico adorava ascoltare e che non prendeva mai seriamente, considerandole un banale intrattenimento tra i suoi colleghi, per alleviare la noia di un deposito vuoto la notte. Questo finché un collega non gli raccontò di Ruby. Quando la storia mi venne riferita, ero così intrigato dal resoconto che dedicai del tempo per contattare tutti colei che era rimasta coinvolta, ricostruendo ciò che era accaduto meglio che potei.
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Ruby era una donna piacente, nonostante avesse diverse ragioni per non esserlo. All’albore dei suoi quarant’anni, la vita era assai più ardua di quanto avrebbe dovuto essere; ogni giorno un’impresa. Nella morsa della povertà sin dall’infanzia, era costretta a passare la maggior parte del suo tempo risparmiando e tirando la cinghia tra due incessanti lavori. Nessuno dei due era per lei ben pagato o gradevole, ma la sua situazione economica dettava le necessità. Durante il giorno, lavorava più ore possibili al supermercato rifornendo gli scaffali e mettendo nelle borse la spesa dei clienti alla cassa. La notte, andava al suo secondo lavoro come donna delle pulizie ad una ditta che produceva, tra le altre cose, prodotti per la pulizia; non sfuggiva all’ironia, e nemmeno alla noia di ogni strofinio e lucidatura.
Alla fine di ogni estenuante e tedioso giorno, Ruby tornava a casa con un lungo e banale viaggio in autobus, con abbastanza tempo per dare un bacio alla sua figlia di tredici anni, Angela, sulla fronte, sussurrandole “sogni d’oro” mentre si addormentava, prima di coricarsi lei stessa. questo breve, intimo momento d’affetto era ciò che faceva andare avanti Ruby. Era per sua figlia che si sacrificava. Il padre di Angela l’aveva abbandonata quando aveva solo due anni, e senza nessun’altro famigliare con cui parlare – almeno, nessuno su cui si poteva affidare – Ruby si era ritrovata a ridursi fino allo stremo ogni giorno, vestendo e nutrendo sua figlia mentre pagava una serie di opprimenti parcelle mediche dovute alla sua grave asma. Lei, ovviamente, non portava rancore per la situazione, poiché la condizione di sua figlia era migliorata considerevolmente e ciò aveva per lei più significato di ogni quantità di lavoro o avversità.
Una notte, a Ruby venne chiesto di lavorare alcune ore extra alla ditta. Anche se era perpetuamente esausta e agognava anche al più misero riposo, accettò la richiesta con gratitudine, in quanto più ore significavano meno debiti; semplicemente non poteva rifiutare l’opportunità. In seguito alla fine di quel turno, a circa venti minuti dopo la mezzanotte attese alla fermata bus più vicina, illuminata nell’oscurità da un lampione sopra la sua testa. Lì, attese con palpebre pesanti che l’ultimo autobus notturno arrivasse. Per fortuna, l’attesa non fu lunga e presto il lungo veicolo accostò goffamente verso di lei. Alla vista della solitaria figura di Ruby, l’autista si avvicinò fino al cordolo del marciapiede prima di frenare. Pigiando un bottone, l’autobus stridette, aprendo le sue porte a pressione idraulica con un sibilo e accogliendola nel suo abbraccio.
L’autista, un irritabile uomo sulla via della calvizie che sembrava tanto stanco quanto lei, brontolò perché Ruby pagasse la tariffa. Lo fece dopo aver rovistato nella sua borsa per quella che sembrò un’epoca, finalmente ricavando la quantità desiderata di spiccioli, con grande fastidio per l’autista. Con stordita letargia, percorse il corridoio centrale, sedendosi vicino ad una finestra sul fondo. Mentre si preparava per il lungo e tedioso itinerario verso casa, il veicolo fremette tornando in vita. Le porte si sigillarono prima che l’autobus si allontanasse dal marciapiede con l’entusiasmo di un ubriaco al suo ultimo giro. Le ruote ruzzolavano ed incespicavano con andamento incerto durante l’ultima tappa del loro viaggio per quella notte.
Il motore ringhiava, le vibrazioni percorrevano la carrozzeria di metallo, facendo sbatacchiare leggermente i finestrini e facendo sì che il sedile, nel quale Ruby era in quel momento sprofondata, tremasse in risposta. Il veicolo aveva visto giorni migliori e stava palesemente raggiungendo la fine della sua vita; la sporcizia su finestrini e pavimentazione erano un concreto promemoria di quelle innumerevoli migliaia di persone che si erano sedute ogni giorno esauste pensando a casa, assieme alle gomme da masticare pestate sul pavimento da stanche scarpe e al mormorio delle lamentele di passeggeri che si sfogavano quotidianamente – eppure la notte, la chiusa struttura di metallo trascurato e rugginoso sembrava quasi serena nella sua apparente vuotezza.
Ad ogni svolta l’autobus sobbalzava a destra e sinistra. Mentre le luminose e fluorescenti luci, che illuminavano sotto di loro dagli sterili impianti del soffitto, erano sufficienti a tenere sveglio chiunque, il sonno di Ruby si trovava comunque in cima alla lista nella sua mente. Ma per l’autista, il veicolo era vuoto – poteva sì e no immaginarlo senza salire le scalette a chiocciola verso l’oscuro piano superiore. Com’è piuttosto comune tra gli esausti pendolari, Ruby appoggiò la testa contro il tremante finestrino sulla sua destra, e si convinse che poteva riposare gli occhi per qualche minuto senza problemi. Giusto il tempo di trovare un sollievo temporaneo dalla stanchezza che la perseguitava incessantemente. Quando l’autobus girò un altro angolo, i rilassanti movimenti ondeggianti cullarono la solitaria passeggera, lentamente e dolcemente, finché non si addormentò.
Quanto tempo i suoi occhi rimasero chiusi Ruby non lo sapeva, ma quando la sua coscienza si schiarì dalla pennichella, si presentò a lei il timore di aver perso la propria fermata. Già detestava lasciare sua figlia da sola a casa, figurarsi farlo per più del necessario. Questa preoccupazione, tuttavia, venne presto sostituita da qualcos’altro. L’inquieta sensazione che le convenzioni sociali e il suo spazio personale fossero stati infranti; la sensazione di aria che si spostava a causa di una presenza vicina. Quando gli occhi di Ruby si riabituarono all’intermittente e fluorescente luce, e quando l’autobus stesso venne scosso e rombò sul cemento sottostante, osservò il suo riflesso nel finestrino: un’immagine specchiata ora alterata rispetto a come era prima. Un brivido le risalì lungo la schiena quando vide l’immagine del suo aspetto dopo esser stata oberata dal lavoro, privata del sonno e preoccupata, assieme all’immagine di una persona ora seduta a fianco a lei.
Mentre le luci della città lampeggiavano dall’esterno, Ruby fissò per un istante il finestrino. Dopodiché, con nonchalance, girò la testa per guardarsi intorno, evitando deliberatamente di fissare l’individuo al suo fianco, prima di ritornare con gli occhi sui freddi riflessi del finestrino. Non fece che peggiorare il suo senso di disagio. Oltre che a lei, all’autista e al passeggero, nessun altro era presente. Non era inconsueto. I trasporti pubblici non erano mai così affollati la notte, tranne durante i fine settimana – la città era ormai addormentata, o si preparava per andare a letto – ma a preoccupare Ruby era perché qualcuno dovesse scegliere di sedersi vicino ad una perfetta sconosciuta in un autobus vuoto, soprattutto se circondati da posti a sedere liberi.
Non volendo essere scortese, continuò ad osservare il riflesso. L’aspetto del passeggero catturò la sua attenzione essendo in qualche modo insolito, il capo chino come a fissare il pavimento, e i connotati nascosti dal cappuccio di un giubbotto verde scuro. Dava solo valore aggiunto alla peculiarità dell’individuo. Era una notte d’estate, eppure era vestito come fosse inverno.
Per un po’ rimasero in silenzio, ma man mano che l’autobus proseguiva la sua corsa Ruby si sentì sempre più agitata, in parte per la vicinanza di un compagno indesiderato, ma per lo più per fattori sconosciuti. Non riusciva davvero ad identificare come mai fosse così tesa, ma l’agitazione aveva iniziato ad avere la meglio su di lei. Il silenzio assordante, unico muro tra loro, istigava e pungolava quel senso di disagio, grattandolo come la crosticina di una ferita.
Mentre i sedili sbatacchiavano e la pavimentazione vibrava ad ogni dislivello della strada, Ruby sbirciò nuovamente fuori dalla finestra, cercando di alleviare la sua inconfutabile, seppur ingiustificata, agitazione. Conosceva la strada sulla quale si trovavano in quel momento e, con un lieto sospiro, Ruby capì di non aver dormito così a lungo da perdere la propria fermata. Quel senso di sollievo fu sufficiente per vincere momentaneamente la sua apprensione. In quello stato d’animo più positivo, iniziò a considerare di parlare con l’inatteso compagno di viaggio, per rompere l’imbarazzante silenzio di quando qualcuno si siede vicino.
Lentamente, si voltò verso il passeggero. Posando gli occhi sulla figura, la sua presenza non era più così distante e irreale come lo era stata nel riflesso. Nell’immediato, Ruby si sentì spaventata, come se stesse guardando qualcuno che non doveva esistere. Il giubbotto verde scuro era sporco e rovinato in diversi punti, accompagnato da un odore di stantio. Il materiale era annerito attorno al bordo del cappuccio, dove una volta c’era un colore più vivido. Ruby pensò a come non avesse visto qualcosa di simile da anni; era fatto di tela cerata impermeabile, ma sembrava non aver toccato acqua da diverso tempo. Il sesso del passeggero era anch’esso un mistero, in quanto ciò che si poteva ricavare dalle sue caratteristiche non si poteva ricondurre a nessuno dei due, ma allo stesso tempo a entrambi. Con il capo ancora chino a fissare il terreno, si poteva scorgere la punta del naso e lo scorcio del mento, ma nient’altro.
Il silenzio divenne per Ruby insopportabile, e con né pensiero né convinzione, le parole uscirono dalla sua bocca. “Fa un po’ freddo qui,” disse – per metà affermazione, per metà domanda. Era sorpresa dal fatto che le parole le fossero uscite fuori, ma la peculiarità della situazione l’aveva spinta a rompere il ghiaccio; la conversazione è la melodia di ciò che è ordinario e sicuro.
Tuttavia il passeggero non rispose, rimanendo concentrato sul pavimento sotto ai suoi piedi. L’autobus sobbalzò nuovamente mentre percorreva le strade della città, le quali erano quasi completamente prive di vita. Passarono alcuni minuti. Agitata dalla mancanza di una risposta, Ruby parlò nuovamente, facendo notare come l’autista sembrasse più scontroso del solito, concludendo l’osservazione con una nervosa e lieve risatina. Eppure, il passeggero non disse ancora niente.
Osservando il mondo scorrere fuori, lei decise che due tentativi di conversazione fossero sufficienti. Lo avrebbe lasciato, o la avrebbe lasciata, in pace e sperò che il resto del viaggio non durasse ancora per molto. In ogni caso, il suo desiderio di trovarsi lontano da quella strana persona seduta s’intensificò.
Dopodiché, un suono.
Un inquietante suono che le fece accapponare la pelle; di un’unghia sul legno. Girandosi per rivolgersi nuovamente verso l’indesiderato compagno, trovò la persona fissare il terreno come aveva sempre fatto. Eppure, il suono proveniva dal suo posto a sedere. Grattava, strappava. Le mani del passeggero erano infilate nello spazio tra le gambe, e trascinava le trascurate unghie su e giù contro il sostegno in legno su cui poggiava il materiale imbottito su cui stava seduto, o seduta. Un orribile, intermittente movimento a scatti.
Il suono dei graffi fendeva l’aria e allo stesso modo i timpani, aumentando di volume finché Ruby, stanca e ora irritabile, non riuscì più a sopportarlo.
“Potrebbe smetterla, per favore?” chiese.
Ma continuò.
“La prego la smetta!” esigette Ruby, questa volta con un energico tono di voce acuito dalla spossatezza.
Il passeggero cessò i graffi ma non si mosse né si rivolse a lei, nemmeno per riconoscere la sua presenza. Agitata ma comunque sollevata, in un certo senso, Ruby guardò fuori dalla finestra un’ennesima volta, cercando di estinguere il crescente senso di fastidio che andava ad accumularsi dentro di lei. Prese un profondo respiro e si calmò con la consapevolezza che presto sarebbe stata a casa. Frugando nella sua borsa, trovò un pacchetto di mentine mezzo pieno e le agitò un po’ prima di ficcarsene una in bocca. Sollevando gli occhi, ciò che vide a quel punto la fece gelare fin nelle ossa. Il volto del passeggero faceva capolino da dietro la sua testa; occhi profondi e neri; bocca deforme e spalancata; il tutto catturato dal riflesso sul vetro.
Ruby urlò a quella visione. Lo shock si tramutò in paura e la paura giunse al panico quando lei urlò e implorò aiuto all’autista. Il riflesso si avvicinò mentre il raspo di un freddo respiro le accarezzò la nuca, il suo corpo rabbrividì dalla repulsione quando il passeggero poggiò la sua secca mano sulla sua spalla; due dita erano assenti fino alle nocche. Il tocco era freddo, e risvegliò una paura che Ruby non aveva mai conosciuto. Artigliandosi al sedile per salvarsi, gridò mentre la deforme mano la tirò. Con uno sforzo alimentato dal terrore, si liberò dall’orribile stretta e balzò sul sedile di fronte, scaraventandosi poi lungo il corridoio e cadendo a terra, sbattendo la guancia contro la pavimentazione.
L’autobus oscillò, sibilò e gemette mentre il passeggero si sollevò lentamente in piedi, testa di nuovo china, volto velato dal lacero cappuccio verde scuro.
“Qualcuno mi aiuti, vi prego! Aiutatemi!” urlò Ruby, cercando di trascinarsi sulla pavimentazione con le mani, le unghie che raspavano il lerciume.
Il passeggero la seguì con attenzione, facendo un passo verso il corridoio e poi procedendo lentamente verso di lei. Dimenandosi terrificata, Ruby si rialzò in piedi, ma non appena lo fece l’autobus virò bruscamente e incontrollato sulla strada. Incespicò a causa di quello strappo, ma la figura incappucciata rimase immobile e radicata. Il motore ora ruggiva mentre l’autobus invadeva il lato sbagliato della strada principale, per poi sterzare in una stradina laterale.
Ma nonostante ciò, il passeggero continuò ad avanzare a passi sicuri.
Mentre il veicolo procedeva sulla sua strada, Ruby urlò all’autista di fermarsi, ma poi le venne in mente come l’autobus avesse ormai da un po’ abbandonato la tratta prevista. Stridette sull’asfalto prima di sfrecciare per una via a malapena larga per una macchina. Dopodiché, altrettanto bruscamente, l’autista schiacciò i freni e il veicolo sbandò di lato prima di fermarsi di colpo. Lanciata dalla forza, Ruby afferrò un sedile per non cadere, slogandosi dolorosamente il polso contro una maniglia nel processo.
Il ruggito del motore si smorzò fino ad un debole piagnucolio, mentre il passeggero continuava ad avvicinarsi. Ferita e sconvolta, Ruby incespicò verso il fronte dell’autobus, picchiando freneticamente con le mani le porte scorrevoli, dal desiderio disperato di fuggire. Non importa quanto forte gridasse; non importa quante volte colpisse con i pugni il metallo e il vetro, non avrebbe ceduto. Era in trappola. Voltandosi per supplicare l’autista di aprire la porta della sua cabina per proteggersi dalla mostruosità che incombeva su di lei, vide come fosse troppo tardi. Lui giaceva lì, accasciato sul volante privo di coscienza oppure morto, il suo corpo racchiuso nel cubicolo di vetro, il pulsante per aprire le porte dell’autobus la chiamava dal cruscotto dall’altra parte dell’uomo.
Dopodiché piombò il silenzio, mentre la figura continuava ad approcciare la sua preda.
“Ti prego, lasciami stare,” pregò Ruby, ricacciando indietro le lacrime.
Ma il passeggero non rispose. La testa rimase china mentre ogni passo strascicava e raschiava la pavimentazione, uno dopo l’altro. Sempre. Più. Vicino.
“Che cosa vuoi da me!?”
Ma ancora, nessuna risposta, poiché quella era una creatura che non doveva esistere, e non aveva bisogno di giustificazioni. Le lacrime scorsero lungo il volto di Ruby mentre il terrore si diffuse come un cancro, annebbiandole i pensieri e irrigidendo i suoi movimenti. E il passeggero continuò ad avvicinarsi, indifferente alle sue suppliche.
In un attimo di pura disperazione, Ruby si voltò nuovamente verso l’autista.
“Si svegli! La prego! Dannazione, si svegli!” gridò.
L’autista rimase immobile; tuttavia il passeggero no. Era sopra di lei, il suo gelido respiro infestava l’aria. Si trovava a soli pochi centimetri di distanza, il lercio impermeabile verde senza dubbio era il rifugio di un essere grottesco e appassito. La figura sollevò la sua secca, deforme e monca mano sopra la sua testa. Ruby indietreggiò in risposta, ma quando quella cosa incombette con violenza su di lei, il puro istinto prese il sopravvento. Schivò il colpo all’ultimo secondo. Innumerevoli frammenti di vetro le piovvero addosso quando il pugno del passeggero impattò contro la cabina dell’autista con forza bruta, frantumando quel guscio protettivo.
Spinta da quell’occasione, Ruby ficcò la mano dentro la cabina e picchiò il pulsante a scatto vicino alla testa dell’autista. Le porte si aprirono, e proprio mentre il passeggero sollevava nuovamente la mano, Ruby fuggì nel buio della notte.
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Chiamò la polizia, che presto raggiunse il luogo dell’accaduto solo per trovare un autista ricoperto da frammenti di vetro, disorientato, ma vivo e vegeto. Ricordava ben poco di ciò che era successo, e l’ultima cosa era Ruby pagare la sua tariffa prima di perdere coscienza. Non aveva alcun ricordo di aver guidato l’autobus lungo l’ultima tratta del viaggio, né sapeva nulla del passeggero incappucciato che aveva distrutto la cabina del guidatore.
Con non poche ricerche da parte mia, sono stato in grado di contattare Ruby, la quale, dopo un po’ di persuasione, mi parlò in dettaglio riguardo quella notte. L’intero calvario l’aveva lasciata devastata, ma non era ingrata dell’esperienza. Nonostante non fosse la sua tratta, l’autobus si era misteriosamente fermato davanti a casa sua. Scossa dal terrore, era istintivamente entrata nel suo piccolo appartamento, chiudendo la porta a chiave dietro di sé, ma prima di telefonare alla polizia aveva subito chiamato un’ambulanza. Sua figlia, Angela, era stata colpita da un terribile attacco d’asma e giaceva sul pavimento a pochi passi dalla morte. Per fortuna, i paramedici arrivarono in tempo per salvarla.
La polizia non trovò alcuna traccia del passeggero; nessuna registrazione nella TVCC né testimoni oculari. Era come se la figura incappucciata non fosse mai esistita; non c’era niente se non un agghiacciante promemoria che testimoniava fosse davvero stata lì. Sul sedile nel quale era seduta c’era un messaggio, intagliato nel legno sotto al materiale imbottito. Due semplici parole: “Non Ancora.”
Nella mente di Ruby, quelle parole l’avrebbero perseguitata più di quanto ogni altra figura incappucciata potesse fare. Se “Non Ancora”, allora quando?
[ Racconto originale di Michael Whitehouse - traduzione di Moka ]