Creepypasta Italia Wiki
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Un cadavere trascinato sulla spiaggia dalle onde del mare. Ma più che trascinato vi era sputato, dalle onde, come se fossero consce di non poter ospitare nel silenzio dei loro abissi, dove dormivano segreti sepolti da millenni quell'abominio, che nella notte abbagliava col suo manto ittico e con i suoi occhi di un colore non definibile.

Era l'ultimo dell'anno, ed il mio gruppo ed io non amavamo il chiasso della discoteca, il puzzo dei veglioni, l'odore spinto della gente, ecco. Ricercavamo una quiete stellare quando la quiete sembrava fosse dimenticata in qualche oscuro angolo dell'universo, esule da quel giorno di baldoria ingiustificata.

T. diceva sempre, facendo dondolare la sigaretta dalle sue labbra all'insù, che un giorno come gli altri non merita feste. Se tutti loro – e con loro intendeva l'umanità intera – dovevano festeggiare per l'ultimo giorno convenzionale di un convenzionale mese di un convenzionale anno, beh, che lo facessero pure. Noi eravamo troppo “eletti” perché si potesse cedere ad ecatombi da impero, così le definiva.

Diceva che la gente amava sacrificare vitelli e tori, nel passato, ma che ora le divinità esterne – che cosa volesse dire con “esterne” non lo sapevo allora – preferiscono una carne un tantino più raffinata, carne “pensante”.

T. aveva qualcosa di decadente e allo stesso tempo di mortalmente affascinante. Era come se il suo volto fosse perpetuamente illuminato dalla luna, come da un pallore funereo, che splendeva trapassando l'attenzione di tutti i presenti. È inutile dire che era lei il cuore pulsante – ma come sembrava che non l'avesse, il cuore! - del mio gruppo.

Non voglio presentarveli così, in fila uno dopo l'altro, perché sarebbe inutile farvi leggere una lista di nomi che tanto non ricorderete. T. aveva qualcosa anche contro i nomi. Diceva di detestare il suo nome, che suonava come un trombone rotto. Ma si faceva comunque chiamare così, non nascondendo una certa nota di fastidio.

Quella notte, appena arrivammo, non fummo sorpresi di trovare la spiaggia deserta, tutta per noi. La luna piena si alzava dal mare per guardarci col suo unico occhio, e tutto intorno regnava il silenzio. T. sembrava soddisfatta, e al suo sorriso, tutti noi sorridemmo impacciati. Avevamo con noi dei teli di seconda o forse terza mano, comprati da troppo tempo, lacerati in varie parti. Sembravamo dei nomadi che trovano ristoro in riva ad un fiume, tutti per giunta avvolti da veli e da giacconi, per difenderci dal freddo del neonato inverno.

T. ci fece accendere un fuoco, mettendo insieme rametti secchi e della gramigna stopposa che cresceva al limitare della spiaggia. Questa non era una spiaggia vasta, come quelle che si stendono come uno sbadiglio del creato sul lembo estremo del mare, ma era una piccolissima insenatura, che baciava la terra in un crinale erto, arido, roccioso. Poi la montagna saliva per un centinaio di metri, ripida.

Nemmeno le macchine si sentivano, in quella spiaggia muta d'ogni luce e rumore. Avevamo con noi delle bottiglie. T. disse che questo non era festeggiare, ma più consumare il proprio tempo. Non ricordo con quale motivo ci avesse convinto a rimanere una notte intera in quel posto che, almeno per il momento, era dimenticato da tutti i viventi.

Parlavamo delle cose più disparate, come sono soliti fare tutti quelli che non hanno cose in comune fuori che l'età, la vicinanza, le cose comuni. T. ci aveva convinto che l'amicizia non è altro che gioco del caso, e il caso è la delizia dell'universo. Quando parlava dell'universo, descrivendone l'immensità e il buio spaziale, le si illuminavano gli occhi, che in quel volto perlaceo sembravano di terra costellata di stelle, per quanto possa sembrare assurda questa similitudine.

Parlava di cose enormi, lontana dalle piccolezze. Diceva che le piccolezze sono per gli uomini, e le cose grandi, assolute, illimitate, fossero per gli dei. Sembrava molto colta e sicura in tutto quello che diceva. Non mostrava mai di avere dubbio alcuno su cosa alcuna, tanto che ad ogni nostro dubbio rispondeva con una frase paradossale che quietava tutto il nostro animo, come quando un cane di piccola taglia viene ammutolito da un mastino.

Non erano solo le sue parole ad ammutolirci, ma il modo sibilante con cui le diceva, quel modo suo particolare di entrare in trance fissando gli occhi al cielo, fermando le sillabe tra le labbra, aspettando minutissimi secondi per poi continuare così, bevendo della nostra attenzione che tutta era rivolta al suo volto e al suo petto, e il suo corpo diventava del pallore di una statua, ma viva. Distoglierle gli occhi da dosso sembrava impossibile, quando parlava.

Parlando per me, posso dire che le sue armi erano due: il suo corpo e la sua voce. Questo l'avrete capito da soli. Ad un certo punto ci fece stappare le bottiglie, e ci disse di bere. Qualcuno fece una battuta sull'ultima cena, ma venne zittito da uno sguardo tagliente di T. Il vino ci imporporava le labbra, e vedere quelle sottili gocce stillare da quelle di T. mi faceva accendere come un fuoco dentro, alimentato dal vino, le cui bottiglie continuavano a passare in cerchio, con noi seduti intorno alle fiamme.

Era caldo, stranamente. Ma il suo calore non ci disgustava, poiché pareva non di bere vino. T. intanto passava la sua lingua attorno alle labbra imperlate di nero, in maniera tale che tutti gli sguardi si puntarono su di lei. Sentivo una certa rivalità tra me e tutti gli altri, ed era come se non riuscissi a riconoscerli più. Intanto, bevevamo ancora, riscaldandoci come assiderati.

Se ve lo fosse chiesto, se nel gruppo ci fossero anche ragazze, posso rispondervi di sì. Erano proprio loro che accendevano una certa gelosia, ma più che gelosia era cupidità. Sapevo che T. amava soprattutto le ragazze. Si sapeva con certezza che molte di loro erano state già invitate a casa di T., che abitava in un palazzo di periferia, tutto macchiato e particolare, che sembrava in qualche modo non provenire da questo mondo. I suoi mattoni, i quali non erano ricoperti da alcuna mano di intonaco o vernice di sorta, erano sbiaditi, quasi verdastri. Il pavimento era di cemento armato, e casa sua – non sembrava avere genitori – era una stanza di questo condominio, divisa dalle altre stanze scheletriche da delle tende.

Si diceva che T. organizzasse delle orge solo con le ragazze. Alcune di quelle che sapevo aver preso parte a queste erano presenti, quella notte. Anche loro avevano occhi solo per lei, mai che guardassero qualcun altro fuori di lei.

La mia testa incominciava a farsi pesante, le cose a diventare come più interessanti, la bocca tutta impastata dal vino, il fuoco sempre più acceso. Ad un certo punto T. si alzò, spogliandosi tutta, lasciandosi nuda. Aveva un corpo indescrivibile, che pareva scolpito da qualcuno che non saprei dirvi. Aveva dei fianchi perfetti, la pelle bianca, dei seni definiti, i capezzoli neri, le spalle esili, il petto liscio, le gambe levigate, il pube rasato.

Non capivo molto di quello che succedeva intorno a me, come saprà chi almeno una volta ha bevuto più di quanto sapesse di poter reggere, ma ero certo che lei fosse pronta a concedersi a tutti noi. La gelosia ora era diventata come un tumore cresciuto a dismisura, divenuto un organismo a se stante, che pilotava ogni mio sguardo, che mi faceva stringere i pugni. Tuttavia aspettavamo ancora, pur sapendo che qualcuno di noi non avrebbe mai più nemmeno guardato quel corpo pallido e bellissimo.

T. si avvicinò alla ragazza più vicina a lei, e incominciò a spogliarla. Quando finì, la baciò intensamente, mordendole le labbra quasi fino a farla sanguinare, aprendole le gambe, sfiorandole i seni, passando le mano sul clitoride. L'altra sembrava nemmeno percepire il freddo, penetrante come lo sguardo nostro che s'era fatto incredulo. Qualcosa si agitava dentro me; per sopirla mi accesi una sigaretta. Tutti gli altri erano ancora come incatenati a quella vista.

La seconda ragazza incominciò a spogliarsi anch'essa, mostrando senza alcuna vergogna a tutti noi le sue forme. Incominciò a sfiorare T., poi a massaggiarla, poi a baciarla su ogni parte del corpo. Sembrava non rispondere alla propria volontà, ma lo faceva comunque, con lo sguardo cupido, iniettato di lussuria. Intanto le volute di fumo si alzavano solitarie nella notte.

Poi tacquero, perché il tabacco cadde nella sabbia. Venni sbalzato da un peso incredibile, come se fossi stato placcato da qualcuno. Il ché, capì improvvisamente come per istinto di sopravvivenza, era vero. Uno del gruppo mi era saltato addosso, con l'intenzione di picchiarmi fino a cavarmi gli occhi. Quello voleva, quello volevamo tutti: impedire che la sua bellezza venisse deflorata dall'avidità degli altri, concederla solo a noi stessi.

Improvvisamente, con il viso premuto contro la sabbia, e il respiro impedito dalla morsa di quello, incominciai a tirare colpi a vuoto, fino a quando lo centrai nella gola. Quello mollò per un paio di secondi la presa, lasciandomi liberare. Sputando la sabbia che m'aveva invaso la bocca, lo strinsi con due mani, facendolo rotolare sotto di me, mettendomi sopra di lui. Le vene delle mia mani si gonfiarono come non avevo mai visto prima, stringendo, cupido, ubriaco, il collo di quel pazzo.

Come un lampo guardai le mie menadi succubi di T., sapendo che anche gli occhi di quel maledetto coglione guardavano la mia, mia solamente T. Preso da un'ira sovrumana, gli riempì la bocca con la sabbia, facendogliela ingoiare, riempiendola ancora con altra sabbia, ascoltando con piacere indescrivibile il suo soffocare inconsulto. Poi, per punirlo per sempre, con una pietra incominciai a colpirlo, ormai indebolito, sugli occhi, scavando via la pelle e la carne attorno ai suoi bulbi. Quando ormai sembrava arreso, buttai la pietra e gli strappai gli occhi, tenendoli poi vittorioso dai nervi ottici, lunghi e mostruosi.

Mi alzai da quello che ormai era solo un cadavere mugolante in preda alle sofferenze più atroci, e guardai gli altri che, persa ogni ragione, incominciavano ad ammazzarsi, picchiandosi come animali. Mi sentì superiore a loro, perché io solo avevo vinto. Ma subitamente caddi in preda all'angoscia. E se avessero vinto? Avrebbero voluto uccidermi? Non furono questi i miei primi pensieri. Temevo, prima di tutto, che avrebbero voluto possedere la mia T., la mia solamente T.

Levai dal fuoco un bastone spesso, che ardeva sulla punta come una fiaccola appuntita, e corsi dal primo che mi fu da presso; gli spaccai il cranio con quella mazza. L'altro che combatteva con lui arretrò di alcuni passi, ma non riuscì a schivare il fuoco, che gli bruciò la mano. Lo finì saltandogli sopra il volto, rendendolo irriconoscibile.

Due erano già morti, uccisi dai loro rispettivi avversari. Approfittando della stanchezza di questi, uccisi il terzo come il primo e l'ultimo, che perdeva sangue dalla bocca e dal naso, irriconoscibile, decisi di tenerlo a terra, e punirlo come feci col primo. Lo tenni stretto a terra, con la mano attorno alla gola, e gli avvicinai la fiaccola al volto. Gli urli inumani occuparono acuti tutta la spiaggia, risuonando per la montagna, mentre la pelle della fronte si scioglieva cucendogli gli occhi, e quella della bocca colava via scoppiettando violacea. Assuefatto alla sua sofferenza, gli piantai il palo in mezzo agli occhi, spegnendo la fiamma della sua vita.

Ora, mi guardai attorno, e mi scoprì solo. Coperto di rosso, guardai finalmente le due menadi circondare T., la mia dea. Era la mia ossessione, ora la mia unica. T., ansimante, mi fece cenno di avvicinarmi. Le altre due, si quietarono, con gli occhi rivolti verso su, procedendo come succubi a spogliarmi. Nudo, sanguinante, le due incominciarono a carezzarmi.

T., alla fine, si sdraiò supina, aprendo le gambe. E io la soddisfeci, entrando in lei, chinandomi su di lei per baciarla. Vidi l'immensità dell'universo, il vorticare delle galassie infinite, le vie infinite delle città degli Esterni, le profondità del R'yleh, gli occhi di Nyarlathotep, la divinità suprema e cieca di Azathoth, i seguaci del culto di Dagon profondo, le oscenità di Yog-Sothoth l'onnicompreso, Shub-Niggurath il nero, il signore del sonno Hypnos, Yig padre dei serpenti, le distese di Yuggoth e i crepitanti Mi-Go.

Vidi l'intera oscurità farsi me, ed io entrare in lei, e lei offrirmi le chiavi dell'eterno, le chiavi di R'yleh, dove il Guardiano unico attende, come predetto nel Necronomicon dell'arabo pazzo Abdul Alhazred, che vidi bruciare maledetto in un fuoco eterno tra le fauci di Shub-Niggurath il nero.

Subito vidi il mare aprirsi, un passaggio offrirmisi.

Ma io rifiutai.

Ora sono costretto in eterno ad ascoltare le matte voci di colui che sussurra nel sonno, il cui nome scriverò una volta e una volta soltanto in vita mia. Colui che non può essere ucciso e che dorme profondamente nella sua città subacquea e maledetta, l'esterno dio Cthulhu. Attendo silenziosamente la morte. Questa sarà la mia testimonianza, la mia eredità.

Rifiutai quando vidi T. mutarsi, diventare la sua forma vera, quella d'un abominio dagli occhi di pesce e dalla forma ittica, le cui scaglie brillavano alla luce della luna. La sua voce era tuttavia la stessa e sussurrava di uccidere anche loro, fatte sue succubi. Quelle tremavano, ma sapevano, e volevano la morte, dopo aver adorato la loro dea l'ultima volta. Le costrinsi dentro il fuoco, e alla fine, mentre gridavano di dolore, sentivo la loro anima volare, ridere, mentre il loro bellissimo corpo vergine veniva deflorato infine dalle fiamme.

Rifiutai e uccisi T. Le aprì la gola traforandola con un bastone infuocato ed appuntito. La vidi trascinarsi fino al mare, per poi spirare lì. Il mare intero si mise ad ululare disperato, proferendo una maledizione eterna che sola risuona nella mia testa da quasi più di un anno.

Ora sono poco più che morto, e attendo che il suono si faccia mortale e che finisca questa mia vita andata oltre l'immaginabile. L'unica cosa che rimarrà di me sarà questo scritto, che chiamerò, a memoria di una tragedia greca, il Testamento delle Baccanti. Scusate lo stile breve e confuso, capirete che non sono uno scrittore, e che mi è molto difficile concentrarmi quando il Profondo è entrato ormai nella mia umana sensibilità. Attendo solo che la pazzia cancelli i miei ricordi, e che la sua volontà e la sua voce diventino la mia volontà e la mia voce.

Non voglio che la mia memoria, ormai corrotta, sussista e venga trovata dalla giustizia. Per questo, chiamatemi solo

Euripides


Baccanti 20


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