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Christine Blueroad era strana; a scuola lo avevano capito tutti e tutti fin da subito avevano fatto del loro meglio per starle alla larga, tranne Tom:  non che al pari degli altri alunni non provasse un senso di soggezione e disagio interiore nell’osservare la sua pelle diafana e quei capelli biondissimi, quasi bianchi, che gli rammentavano i pennacchi del granoturco, ma ne era anche irrimediabilmente affascinato. Tom aveva dodici anni e a quell’età le cose fuori dal comune respingono ed attraggono allo stesso tempo. Eppure non le parlò per quasi tre settimane, limitandosi a studiarla con la stessa soggezione con cui si osserva uno strano esemplare di insetto, ammirandone le forme ma al contempo temendone la puntura e forse il veleno. 

Christine era strana, ma nessuno, se glielo avessero chiesto, avrebbe saputo dire perché lo fosse. Vestiva normalmente e il suo aspetto non era poi così fuori dal comune; forse però c’era qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che rendeva la sua espressione diversa da quella degli altri bambini della scuola di Rockwell, Virginia. Era come se sapesse. Tom non riusciva a spiegarsi cosa ciò volesse dire, ma quello di Christine era un po’ lo sguardo di certi adulti quanto sanno qualcosa e non vogliono rivelarla. 

Un’altra cosa che la rendeva diversa era il fatto che non cercava la compagnia. Da quando era arrivata a Rockwell con la famiglia - nessuno seppe mai da dove - non fece mai amicizia con qualcuno dei ragazzi o delle ragazze della scuola, eppure non sembrava che la solitudine la disturbasse e non sembrava nemmeno scontrosa o altezzosa: in un certo qual modo era come se per lei gli altri semplicemente non ci fossero, a meno che essi le si rivolgessero direttamente, a quel punto rispondeva con laconica educazione, senza giri di parole, senza gesti, senza spostare i suoi occhi grigi da quelli dell’interlocutore. Generalmente, le sue risposte erano “sì” o “no”. Non faceva mai domande. Divenne subito la prima della classe, ma nessuno osò definirla secchiona; un po’ - come Tom credeva - era perché temevano la sua reazione alle prese in giro e un po’ perché, era chiaro a tutti loro, Christine non era una secchiona. Non si vantava dei suoi risultati, non passava ore in biblioteca. Dava l’impressione che per lei ogni materia, ogni lezione e ogni esercizio fosse un compito che aveva già fatto e che stava semplicemente ripetendo con il fare meccanico di chi compie un’azione cento volte. Non era svogliata, ma neanche interessata. Le sue risposte alle interrogazioni dei professori erano sempre brevi e corrette.

Tom ci impiegò tre giorni per decidersi a conoscerla. Non sapeva come attaccare bottone con un tipo come lei, e ammetteva che talvolta Christine lo inquietava, con quel suo silenzio, con quel suo sguardo. Successo un giovedì, dopo le lezioni; era ottobre, quasi Halloween, e pioveva a dirotto. Christine non prendeva l’autobus e nessuno era mai venuto a scuola con l’auto per riportarla a casa. Tom le si era avvicinato con l’ombrello aperto.

<<Ti bagnerai fino alle ossa>> le disse, notando che Christine non aveva l’ombrello con sé.

<<Impossibile che accada: le ossa sono dentro la carne>> fu la risposta meccanica di lei. 

Tom si sentì a disagio e spostò il peso da un piede all’altro, ascoltando il ticchettare della pioggia sulla tela dell’ombrello. Era indeciso sul da farsi, ma Christine scelse per lui, spostandosi sotto la falda dell’ombrello. 

<<Abito in Maple Street>> disse.

Presero a camminare sotto la pioggia, lungo il marciapiede foderato da uno strato di foglie di platano marroni e marce. Camminarono per quasi un quarto d’ora, in silenzio: tutti i goffi tentativi di Tom di conversare con lei erano stati facilmente elusi. Non era scontrosa, ma era chiaro che non le importava di niente, meno che mai di lui. 

<<Perché tu sei così?>> chiese poi Tom, quando raggiunsero l’abitazione dei Blueroad, l’unica che non possedeva decorazioni per Halloween. Subito, il ragazzino si pentì di quella frase e stava per scusarsi, ma notò un’espressione blanda e nuova sul volto candido di Christine: interesse, forse. Si chiese se non si aspettasse quella domanda, prima o poi.

<<Perché io so>> disse. Un lampo guizzò sopra le case facendo balenare i vetri delle finestre, rendendo il mondo una foto al negativo. Poi, il tuono fece sussultare Tom. Christine, al contrario, lo fissava impassibile, l’anima di una sfinge nel corpo di una quattordicenne senza curve. 

<<Sai?>> chiese Tom, stordito da quella situazione, infreddolito dall’umidità di ottobre, voglioso solo di andarsene. <<Sai cosa?>>

<<Quel che viene dopo>> replicò lei, senza emozione. <<E puoi saperlo anche tu. Io potrei mostrartelo, se vuoi.>>

Poi, senza dare altre spiegazioni, si allontanò lungo il vialetto costellato di foglie, fino alla porta di casa, dentro la quale sparì.

Tom dapprima pensò che Christine fosse semplicemente pazza e decise di non averci più a che fare e lei non andò a cercarlo. Fu come se nulla fosse accaduto, almeno per un paio di giorni, poi Tom cominciò a sentire una strana frenesia lievitare dentro di lui, un sentimento fastidioso che lo distraeva durante le lezioni, che gli faceva sbagliare strada quando camminava, che sempre più di frequente lo portava a chiedersi se ci fosse una logica nel discorso folle della ragazzina. Cosa significava quella frase? Subito, provò ad allontanare da sé quella curiosità: Christine era solo una ragazzina disturbata, probabilmente neanche lei sapeva quel che diceva … o forse sì? 

La voglia di sapere non si inibì e ben presto Tom si ritrovò sveglio la notte a pensarci, a rigirarsi sotto le lenzuola, frustrato, arrabbiato, impazzendo nel vano tentativo di decifrare le parole di Christine. Era il 30 ottobre, quando decise di avvicinarsi ancora alla ragazzina, in biblioteca. Fra gli scaffali, l’aria polverosa che sapeva di carta era impregnata della bigia luce del temporale. Christine, illuminata da questa luce, pareva ancor più strana e sinistra del solito, immobile come una statua, e solo il lieve alzarsi del suo petto a ogni respiro tradivano il fatto che fosse viva e non un oggetto. Tom la osservò a lungo, indeciso, combattuto fra la voglia di lasciar perdere e la consapevolezza che non avrebbe mai più dormito in pace se non avesse saputo. 

Alla fine era andato a sedersi accanto a lei, che non aveva neppure alzato gli occhi dalle pagine del libro che era intenta a leggere.

<<Voglio sapere cosa c’è dopo>> affermò con l’ansia nella voce.

Lei girò una pagina. Lesse qualche riga. <<Lo so>> disse poi, prima di mettere il segnalibro e alzarsi. <<Domani sera, alle 19. Casa mia>>

<<Ma … ma domani è Halloween!>> protestò Tom, <<volevo andare a fare il giro con i miei amici>>

<<Questa e altre cose non avranno più importanza, quando saprai>> replicò Christine, gelida. <<Domani alle 19. Ci sarai?>>

Tom avrebbe voluto rifiutare. E invece sentì la propria voce rispondere che sì, ci sarebbe stato. 

31 ottobre, Halloween: una nebbia fitta ricoprì la città intrappolandola in un’opaca ragnatela di gas. Case, alberi e strade parevano sfumare in quello sfondo lattescente, infinito, come la vastità dello spazio. Tom non fece parola ai suoi genitori del cambio di programma, ma chiamò tutti gli amici, dicendo loro che aveva la febbre e che per quell’anno non avrebbe partecipato al consueto giro del Dolcetto o Scherzetto. Per dare l’idea ai suoi genitori che tutto fosse a posto, indossò comunque il suo costume da Frankenstein e si incamminò verso Maple Street, procedendo per vicoli bui e laterali, poco illuminati. Il freddo superava facilmente la barriera del suo costume, permeandogli la pelle come una spugna, raggiungendogli le ossa. Tremava e camminava accompagnato dal ticchettare osseo dei suoi denti. La maschera che gli incappucciava il capo gli si appiccicava alla pelle per via dello strato di sudore. Era appena comprata e puzzava di plastica da togliere il fiato. 

Raggiunse la casa dei Blueroad, offuscata dalla bruma, buia. Si chiese se ci fosse ancora qualcuno desto - dopotutto era molto presto - e avvicinandosi colse da un bovindo lo sfarfallio di un televisore. Percorse il vialetto umido di pioggia e raggiunse la porta. Suonò il campanello, che gracchiò nell’atrio in modo fastidioso, come lo stridio di una creatura sconosciuta e iraconda. Si guardò attorno attraverso i fori della maschera , saltellando sulla veranda per riscaldarsi: le altre case erano illuminate dalle lanterne di zucca o avevano le luci accese sopra le porte, in attesa dell’arrivo dei ragazzi, ma non quella dei Blueroad che, esattamente come Christine, pareva indifferente alle usanze del mondo circostante, separata dagli altri dal velo impalpabile della foschia. 

Un minuto trascorse lento. Tom si chiese se fosse il caso di suonare di nuovo, o forse andare via, lasciare perdere tutto, ma allora udì un suono di passi, poi la porta venne aperta e Christine emerse dalla penombra dell’ingresso portando con sé un olezzo di casa vecchia. 

<<Entra. Levati quella cosa dalla faccia>> ordinò.

Tom ubbidì senza discutere, anche se in altre occasioni si sarebbe offeso. La porta si chiuse e la pelle d’oca gli si formò sulle braccia. La casa era buia, appena rischiarata dalla luce del televisore vecchio e ingombrante che poggiava su un mobile antiquato, al centro dall’anfiteatro composto da un divano di cuoio e una poltrona di velluto. 

I signori Blueroad sedevano di fronte al televisore, lo sguardo rivolto allo schermo che, come Tom si accorse dopo una manciata di secondi, non era sintonizzato su alcun canale ed era saturo di uno sciame di pallini bianchi che si agitavano producendo un sibilo continuo. La signora Blueroad sedeva sul divano, mentre il marito sulla poltrona: lei era tarchiata e grassa, mentre lui decisamente esile e angoloso. 

<<Mamma, papà, lui è Tom>> disse Christine con voce indifferente, come se stesse recitando delle formalità noiose sulle quali non voleva soffermarsi troppo. Tom era pronto a stringere la mano ai signori Blueroad, ma nessuno diede segno di aver udito la voce della figlia: continuarono a fissare lo schermo invaso di nevischio, senza batter ciglio, affascinati, con la bocca socchiusa. La mano destra del signor Blueroad era leggermente sollevata dal bracciolo della poltrona e vibrava, contraendo le lunghe dita nocchiute. Dopo un paio di secondi, la testa dell’uomo ruotò lentamente sulle vertebre e i suoi occhi spalancati andarono ad allacciarsi a quelli di Tom, che fu pietrificato dal vuoto di quello sguardo: era come aprire una finestra sullo spazio siderale o su un luogo talmente lontano dal sole da essere rimasto buio fin dall’inizio dell’universo. L’uomo gli sorrise, lentamente, come se la sua faccia non ricordasse più come fare, ma solo un angolo della sua bocca si sollevò, contorcendo i suoi lineamenti in una smorfia. Compiuto il suo atto di gentilezza, il signor Blueroad tornò ad interessarsi al frenetico vorticare dei pallini sullo schermo della tv. 

<<Ma … ma i tuoi stanno bene?>> mormorò Tom a Christine.

<<Hanno meno preoccupazioni, adesso>> rispose lei in tono indifferente.

<<Cosa significa?>>

<<Ora lo vedrai. Forza, saliamo di sopra.>>

Tom sentiva il petto sconvolto da un terrore soffocante, eppure le sue gambe salirono su per la scala buia e seguirono Christine dentro la sua stanza da letto. Era disadorna, semplice da far male al cuore, essenziale. Niente poster, niente radio o tv, niente peluche. La luce scivolava dall’esterno, filtrata dalle tendine, rischiarando appena i contorni del letto e dello scrittoio. Tom posò una mano sull’interruttore.

<<Non c’è la lampadina>> lo prevenne Christine.

<<Perché?>>

<<Non ne ho bisogno, mi piace stare al buio.>> La udì aprire un cassetto e poi ci fu un palpito luminoso: un fiammifero spargeva il suo alone giallo e tremulo sul volto della ragazzina, che lo abbassò verso lo stoppino di una candela. Posò sul pavimento la candela, che illuminò una larga tavola di legno sulla quale erano state incise con pirografo le lettere dell’alfabeto e i numeri da 1 a 9. Al centro stava una grossa moneta d’oro di aspetto molto antico, brunita e graffiata. Sempre più impaurito, ma incapace di sottrarsi al fascino di quella situazione sconvolgente, Tom prese posto sul pavimento. Christine toccò con l’indice la moneta e lo invitò a imitarla. 

<<Hai un morto?>> domandò.

<<Che cosa?>>

<<Un morto. Una persona che conoscevi e che ora è morta.>>

Tom rifletté. <<Nonno Roger>> rispose poi. <<È morto l’anno scorso. Aveva una brutta malattia, non riconosceva più nessuno di noi ed era diventato cattivo. Una volta mi ha quasi buttato giù dalla scala.>> Fremette nel riandare con la mente a quei ricordi; aveva sempre avuto paura di nonno Roger.

<<Qual era il suo nome?>>

<<Roger Newman.>>

Christine chiuse gli occhi. <<Roger Newman, Roger Newman, tu che sei nel vuoto, segui la mia voce.>> Fece una pausa. <<Sei qui, Roger Newman?>>

La moneta d’oro scivolò sulla tavola e si spostò. Compitò la parola “si”. I battiti cardiaci di Tom accelerarono di colpo. 

<<Non togliere il dito>> lo ammonì Christine, guardandolo con tale severità da mozzargli il fiato. Poi, rivolta non più a lui: <<Come facciamo a sapere che sei tu, Roger Newman?>>

Di nuovo, la moneta d’oro tornò a muoversi, provocando un sibilo sul legno. Tom era fuori di sé dal terrore, ma scoprì che a terrorizzarlo di più che la situazione era la prospettiva di togliere il dito, perché, lo sentiva, sarebbe accaduto qualcosa di tremendo, se l’avesse fatto. 

La moneta formulò la parola “green waters”. 

<<La casa di cura dove il nonno è morto>> ansimò Tom, tremando.

<<Roger Newman>> riprese Christine, solenne, <<qui c’è Tom, tuo nipote. Tom vuole sapere quel che c’è dopo. Puoi accontentarlo?>>

Non accadde nulla per un minuto, due. Poi la moneta si mosse di nuovo. Si sposto quasi a fatica, trascinandosi prima sulla S e poi sulla I. 

Fu allora che la candela si spense come se qualcuno ci avesse soffiato sopra, facendo calare il buio totale. Tom sussultò: aveva il respiro sincopato, ma neanche allora, con la paura che lo strangolava, staccò il polpastrello sudato dalla moneta, neanche quando udì qualcuno salire le scale con lo stesso incedere di nonno Roger. Lo udì trascinarsi lungo il corridoio, sentì il colpo del bastone sul pavimento. Il cuore gli rimbalzava nella cassa toracica. 

<<Anch’io avevo paura>> disse Christine, la voce atona. <<Fa sempre paura, all’inizio. Ma poi non si ha più paura di nulla, perché sai quel che viene dopo.>>

La maniglia della porta fremette come se una mano incerta la stesse girando. La serratura scattò e la porta iniziò a spalancarsi mandando un querulo cigolio di cardini, mentre una figura ingobbita, così scura da confondersi con il buio, emergeva lentamente fuori, portando con sé odore di vecchi sigari, orina e medicinali. 

Tom urlò e balzò indietro, sentendo il letto premere contro le sue scapole. Lo vide avanzare. Vide la sua faccia smunta e pallida, vide i baffi grigi e soprattutto vide quegli occhi enormi, quelle voragini, quei buchi neri. E guardandoli capì quel che c’era dopo. Ed era atroce. 

Fisicamente sta bene: i medici non facevano che ripetere altro ai coniugi Newman dopo aver visitato il figlio. Lo avevano portato in ogni clinica, avevano svolto su di lui ogni esame. La sua mente era normale, anzi, pareva addirittura che le facoltà intellettive fossero migliorate, a giudicare dal rendimento scolastico. Ma Tom non era più Tom. Stava ore chiuso in camera a fissare il televisore senza sintonizzarlo. Una volta, uno dei tanti dottori gli chiese:

<<Tom, perché fai così?>>

E lui rispose, indifferente: <<Perché io so>>

<<Cosa sai?>>

<<Quel che viene dopo.>> Una pausa. <<Le piacerebbe saperlo?>>

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